mercoledì 17 luglio 2013

SHALL WE DANCE?



Eravamo in viaggio di lavoro in una piccola città assolata dell’Italia centro-meridionale. Dovevamo supervisionare l’installazione di un impianto automatizzato di pulitura e stoccaggio di ortaggi, in una grande e rinomata azienda agricola locale. Era quasi estate e di giorno il caldo cominciava a farsi sentire. Io e Luca, il mio collega di qualche anno più anziano, ci saremmo fermati nella cittadina per una settimana.

Avevamo preso residenza in una pensioncina carina che si affacciava su un’ampia piazza circolare, attorniata da antiche case d’epoca medioevale, le une a ridosso delle altre. Strette, strette l’una all’altra come vecchie comari popolane che s’incontrano al mercato e si scambiano, bisbigliando e mormorando, gli ultimi pettegolezzi appena scoperti.

Nel centro, era stata eretta una fontana che impreziosiva la piazza: decine di zampilli argentei piovevano sulla colonna centrale, sormontata da una statua raffigurante il patrono del paese. Alle sue spalle, si ergeva imponente la chiesa in stile romanico.

Luca mi piaceva. Molto. In passato mi ero scoperto ad avere delle fantasie che lo vedevano come protagonista.

L’ovale del suo viso, circondato da una barba corta e curata, che cominciava a imbiancare, ricordava il volto di un antico romano. I capelli tagliati corti conferivano ai suoi lineamenti, un tono pulito e aristocratico. Aveva un corpo proporzionato, non molto robusto ma regolare. Le sue mani erano in perenne movimento, mentre parlava gesticolava parecchio e si muovevano armoniche, fendendo l’aria in modo mascolino. Nell’insieme era una persona decisa e schietta, che però non usciva mai dal seminato, era sempre cortese e attento nei confronti delle altre persone. Accompagnava le sue richieste sempre con un “per cortesia” o “gentilmente”. Ringraziava e salutava calorosamente e ti metteva a tuo agio mentre discutevi parlando con lui. Il suo sorriso era magnetico ed egli era generoso nel distribuirlo a tutti quanti.

Non era sposato, avevamo affrontato l’argomento una volta sola: era restio a parlare della sua vita privata e sviava il discorso ribaltandolo in continuazione, riuscendo a porre l’altra persona sempre al centro del discorso. Pensai fosse dovuto a una sorta di riservatezza o di timidezza, ma mi sbagliai e durante quella trasferta ebbi modo di accorgermene.

La sera, dopo il lavoro e una doccia rinfrescante, andavamo a mangiare in una piccola trattoria a pochi passi dalla pensione. All’esterno, su una pedana di legno chiaro, avevano messo dei tavoli e da lì potevamo godere del fresco della sera e della vista della bella piazza medioevaleggiante. Non c’erano molti avventori, la maggior parte dei cittadini cenava in casa e la sera preferiva sedersi ai tavolini del bar gelateria, situato dall’altra parte della piazza ellissoidale. Diventammo presto i beniamini dei due padroni della trattoria, una coppia di sposi cinquantenni dal carattere semplice e gioviale.

Appena fuori la piazza, c’era un vasto parco cittadino, con prati ben tenuti, lunghi viali ciottolosi e secolari alberi frondosi. Una di quelle prime sere della nostra trasferta, nel parco avevano allestito un concerto di musica e la cittadinanza era tutta presente all’evento. Ci eravamo attardati nella trattoria dopo la cena, godendoci la tranquillità della piazza quasi deserta e della musica che arrivava dai giardini gremiti dalla folla. Non conoscevo il nome della piccola orchestra, ma devo ammettere che erano molto bravi. Avevano un repertorio molto variegato che comprendeva brani jazz, swing, blues e anche ballabili che permettevano alla gente di cimentarsi sulla piccola pista da ballo, allestita di fronte al palco.

La musica si udiva bene nell’ampio anfiteatro naturale della piazza e il volume era gradevole, molto più che nella caotica situazione creatasi sotto il palco dei giardini pubblici.

“Bella questa canzone”, disse Luca rompendo il silenzio.

“Ti piace la musica? Non solo questa, in genere…” chiesi, non per curiosità ma per trovare l’occasione di evitare quel silenzio, quasi palpabile, che si era creato tra di noi.

“Non sono un grande esperto musicale ma, sì, mi piace” alzò gli occhi sorridendomi.

“Da ragazzino ho imparato a suonare un po’ la chitarra. Ma non sono bravo: strimpello” ammisi contraccambiando il sorriso.

“Io invece ho preso lezioni di ballo” gli occhi sempre luminosi.

“Davvero? Ma dai…” non ero stupito, il suo corpo aveva movimenti sempre armonici, pensavo fosse dovuto a sessioni di palestra e di lunghe corse di allenamento. Magari quella ginnastica dolce, cinese, che si fa nei parchi al sorgere del sole, come si chiama? Tai Chi.

“Che genere?” domandai.

“Ballo liscio. Tango, valzer, foxtrot, paso doble… quelle cose lì”.

Sentii che si stava mettendo sulla difensiva quindi lo pungolai: “Scommetto che eri bravo. Be’… sarai bravo anche ora”.
“Bravo è una parola grossa. Non l’ho mai fatto a livello professionale, però ho vinto delle gare” ammise.

“Grande!” mi complimentai con sincerità.

Mi sembrò che fosse arrossito, ma nella piazza le luci dei lampioni erano lontane e la candela sul tavolo proiettava una luce pallida sulla nostra pelle.

“Io invece non ho mai ballato.” confessai “Cioè, mai a livello amatoriale. Ovviamente sono stato in discoteca, alle feste con gli amici, alle sagre di paese.”.

“Io iniziai per colpa di un film. Quello con Richard Gere, hai presente?”

“Shall we dance?”

“Proprio quello.”

“Racconta” lo spronai con sincera curiosità.

“Mi metti in imbarazzo!” Sono sicuro che questa volta arrossì. Sorrise, ma non s’interruppe e continuò: “Era un periodo brutto della mia vita. Avevo appena rotto una relazione affettiva ed ero in crisi col mondo intero. Lavoravo e dormivo, non avevo altri interessi. La sera mi mettevo davanti alla televisione ma non la guardavo veramente e poi crollavo a letto esausto. Un grigiore totale, ero in un limbo di apatia e di disinteresse. Una sera mi ubriacai, la sera dopo anche. La terza sera ero già sulla buona strada e mi capitò il film di Gere in televisione. Fu come uno squarcio nel buio. Decisi che non era il caso di diventare anche alcolizzato e mi accorsi che avevo perso già troppo tempo a piangermi addosso. Dovevo trovare una soluzione o almeno qualcosa da fare per tenermi occupato. L’occasione della danza poteva essere interessante. Quasi per gioco trovai questa scuola di ballo e m’iscrissi. Dopo qualche mese ero già in grado di affrontare le gare provinciali per principianti. Il resto è storia”.

Era la prima volta che mi parlava così a lungo di se stesso. Gli misi una mano sul braccio in segno di solidarietà, appoggiò la sua sopra la mia. Provai immediatamente un brivido di piacere.

“Un giorno dovrai insegnarmi a ballare” proposi per scherzo.

“E’ un tango” disse ascoltando il pezzo che la band aveva appena attaccato. “Perché non iniziamo subito?” mi chiese. La sua voce mi sembrava un poco tremante.

“Qui? Nella piazza?” domandai incredulo.

“Perché no? Sono tutti al parco” rispose senza guardarsi intorno. “Per favore” sussurrò per convincermi.

Trovai l’idea piuttosto matta ma il desiderio di poterlo stringere tra le braccia era forte, fortissimo. Quanto tempo avevo desiderato avere le sue braccia attorno al mio corpo, abbracciarlo io stesso con trasporto e passione. Sarebbe stata una pessima idea.

“Non è il caso.” gli dissi abbassando lo sguardo.

“Timidone!” mi schernì. “Coraggio! Non è la prima volta che due uomini ballano assieme”.

“Non è per questo, Luca” ribattei quasi supplicando.

“E’ allora perché no, Sergio?” mi guardava fisso negli occhi sorridendo, la sua mano rivolta col palmo all’insù in cenno d’invito.

“Perché…” cercai di recuperare una scusa ma non ne trovai neanche mezza.

“Perché...?”

Presi una grande boccata d’aria e mi lanciai nel vuoto.

“Perché sono gay, Luca. Perché tu mi piaci e potrei perdere la testa e, non ultimo, perché soffrirei se dovessi innamorarmi di un etero”

La frase mi uscì tutto d’un fiato. Era una confessione che non aveva via di scampo, un punto di non ritorno.
La sua mano si distese sulle mie, intrecciate sul tavolino.

“Sergio” mi chiamò sussurrando.

“Sergio” ripeté nuovamente.

“Sergio, per favore guardami” mi ordinò con dolcezza.

Alzai gli occhi. Incontrai il suo perenne sorriso e quei due grandi occhi neri.

“Non sono etero. Anche io sono gay. E in questo momento ho davanti l’uomo che desidero da mesi, e vorrei ballare con lui”.

Mi prese la mano e con gentilezza mi accompagnò nella piazza. Poi mi abbracciò.

Il tango nel frattempo era finito e l’orchestra suonava un lento.

Dondolammo al ritmo della musica, prima con esitazione poi sempre più convinti. Appoggiai la mia testa contro la sua. Mi baciò il collo, poi lo succhiò dolcemente. Rabbrividii sentendo la sua lingua sulla mia pelle. Si discostò da me e mi guardò intensamente negli occhi in una tacita domanda di permesso. Le sue labbra si mossero in un “per favore” ma senza alcun suono.

Lui è fatto così, chiede sempre prima il permesso.

Annuii impercettibilmente. Solo allora le sue labbra si accostarono alle mie e ci baciammo a lungo. La musica finì e ci staccammo con un sorriso.

L’orchestra attaccò un boogie-woogie.

“Per il tango, dovremo fare qualche lezione in privato” disse scherzando. Negli occhi passò una luce maliziosa.

“Temo che dovrai darmi molte lezioni, perché sono un pezzo di legno” ridacchiai.

“Non chiedo di meglio che un ciclo di lezioni per lungo tempo” concluse sornione. Poi mi baciò nuovamente.

“E quando avrò imparato? Se mai riuscirò?” chiesi allarmato “Mi lascerai?”

“Quando avrai imparato, e senza dubbio ci riuscirai, ti porterò a ballare. Ma sono geloso, sappilo, ballerai solo con me. Soltanto con me”.

2 commenti:

  1. Oddio ....il finale poi..romanticissimo..bravo Eagle..

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  2. Grazie dolce Romy. Sono felice che siano apprezzati i racconti. Qui mi sono visto a Lucca nella piazza ovale... bellissima.

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