mercoledì 11 settembre 2013

L'ALBATRO



Carlo continuava a insistere a invitarmi fuori con lui e il suo compagno. Io continuavo a negarmi. Non era per fare il prezioso o per evitare di far da terzo incomodo. Semplicemente non mi andava di uscire. Anche quel venerdì pomeriggio mi arrivò il suo SMS:

Vecchio mio, io non mi stancherò mai di invitarti,  per cui
muovi  quel  tuo  grasso  culone  flaccido  ed esci con noi
stasera! Se accetti, ti lascerò in pace per un mese intero.
Baci :-P

Decisi che un mese di letargia, senza ulteriori richieste “barra” proposte da parte di Carlo, ne valesse la pena. Così accettai. 

Mi passarono a prendere alle dieci di sera e attraversammo la città con la loro auto, diretti verso quello che era il locale che più avevamo frequentato durante la nostra giovinezza. Non che fossimo vecchi ormai, ma erano passati i bollori del sesso sfrenato e del divertimento a tutti i costi. Mi avviavo verso la quarantina e, contrariamente a Carlo, non avevo ancora trovato la mia anima gemella. Come se ce ne fossero ancora a disposizione! Alla nostra età ormai gli uomini interessanti erano tutti accoppiati e quelli disponibili cercavano per lo più una botta di una notte e via. Carlo era stato fortunato, ormai stava con Giulio da quasi tredici anni e andavano ancora d’accordo come il cacio coi maccheroni. Eppure, guardandoli, sembravano la coppia peggio assortita della scena gay della città; senz’altro della nazione. Forse del pianeta.  Carlo è il tipico orso, grande grosso e muscoloso. Sempre disordinato, con la barba lunga e i capelli rasati. Non veste altro che jeans sdruciti e camicie scozzesi. Giulio é invece l’immagine del tipico uomo d’ufficio, sempre leccato e ordinato, perfettino con i suoi occhiali da ragioniere che gli conferiscono un’aria da sfigato e primo della classe. Mi ricorda uno di quei seminaristi che studiano per diventare prete. Eppure c’è un’intesa tra di loro che spesso mi sconcerta e qualche volta mi dà la nausea. Carlo pende letteralmente dalle labbra del suo uomo. Grande e grosso com’è, diventa un agnellino quando sta con Giulio. Continua a stringerlo a sé, cerca il contatto fisico, non lo lascia mai allontanare. Come se gli mancasse l’aria quando lui non gli è vicino. Una volta eravamo a casa loro da soli, stavamo guardando un film alla televisione, il volume era alto per cui non avrebbe potuto sentire il motore dell’auto in cortile. Ad un certo punto mi dice: “E’ arrivato Giulio, metto a scaldare l’acqua per la pasta”. Dopo un minuto Giulio è entrato nell’appartamento di ritorno dal lavoro. E’ incredibile. Non so come riesca a capirlo, è come se avesse un sensore incorporato che gli segnala la presenza del suo compagno nel giro di duecento o trecento metri. E cambia persino atteggiamento. Diventa un gattone alto quasi due metri: un grande e grosso “trottolino amoroso du-dù, da-da-dà”.

Che dire? Beati loro.

Io invece, sono lo sfigato vero e proprio. Trentotto anni e ancora alla ricerca del compagno della mia vita. Non che sia brutto. Per lo meno, le mie storie interessanti le ho avute anch’io. Una è durata più di due anni, ma è stata il massimo dei miei traguardi. Fino ai trenta non me ne fregava niente. Volevo il sesso e lo ottenevo facilmente. Carlo dice che ho avuto più uomini io nel mio letto che Marilyn Monroe. Non so quanti ne abbia avuti la signora Norma Jeane, ma, in effetti, ho perso il calcolo delle mie storie tra le lenzuola. Qualcuno non mi ricordo neppure che faccia avesse. Dai trentacinque ho cominciato a cercare il mio Principe Azzurro. Forse, per la legge del contrappasso di Dantesca memoria, sono condannato a rimaner zitello perché ho fatto lo sciupa cazzi in gioventù. Ben mi sta.
Entrammo nel locale e cercammo gli altri amici della compagnia. Attraversando la sala gremita di gente, vidi un paio di sveltine che mi ero fatto in passato. Uno di loro mi salutò alzando la mano, risposi con un “ciao”. Come si chiamava? E chi se lo ricorda? Iniziava con la erre: Riccardo, Roberto, Ruggero. Mah! 

Salutai il barista, di lui mi ricordavo il nome: “Ehi, Max, come va?”

“Ciao, prof! E’ parecchio che non ti si vede”. Non l’ho detto? Sì, sono un professore: lettere. Un altro punto di sfiga a mio favore.

“Già” costatai laconico.

“Il tuo uomo ti ha lasciato uscire, stasera, o sei con lui?” mi chiese sorridendo.

“Quale uomo? Me lo sono perso per la strada?” domandai guardandomi intorno e scherzandoci su.

Mi guardò confuso: “Pensavo che… lascia perdere, non sono affari miei”.

Risi al suo imbarazzo: “No, non c’è problema Max. E’ che non esiste ancora il principino che mi ha rubato il cuore”.

“Peccato, un bell’uomo come te. Sei sciupato”, ribatté sinceramente.

Valutai il ragazzo. Non lo avevo mai guardato troppo seriamente. Voglio dire, era solo il barista d’altronde. Troppo giovane per me e troppo carino per concedermi solo una notte. Probabilmente aveva già un compagno o un qualcosa di simile che entrava e usciva dal suo letto.

“Grazie per il complimento, Max. Però gli anni cominciano a pesare” ammisi tristemente. Poi aggiunsi: “Seguo Carlo e Giulio, altrimenti mi si imbucano nella dark room e non escono fino a Natale”.
“Hei, non fanno coppia fissa quei due?” chiese curioso.

“Assolutamente sì. Ma non ho detto che si sarebbero infilati necessariamente con qualcuno. Troppo innamorati l’uno dell’altro”.

“Beati loro”.

Appunto.

Mi allontanai con un cenno di saluto. Max mi guardò e fece un segno col mento verso un tavolino appartato. Guardai verso l’angolo in penombra e scorsi la figura di un uomo seduto che leggeva un libro. Strano, pensai. Il locale gay col ritmo della musica rimbombante non è proprio il posto ideale per leggersi un libro. Accantonai la questione e mi avvicinai al tavolo dove, nel frattempo, si erano seduti i miei amici. Stranamente erano solo loro due, niente cenno degli altri vecchi amici della compagnia.

Carlo mi guardò e mi sorrise: “Non sono ancora arrivati gli altri”.

“Chi dovrebbe arrivare?” chiesi.

“Franco e Piero, Nicola con il suo nuovo ragazzo e…” distolse gli occhi dal mio viso mormorando un altro nome. Captai il movimento delle labbra più che il suono della voce.

“Marco?” chiesi, o meglio, urlai allibito. “Marco?” ripetei incredulo.

Carlo annuì. Marco era il mio ex. O meglio, il mio ex-ex-ex, quello della storia di più di due anni. Non lo avevo ancora perdonato completamente. Le corna in testa le portano bene solo le capre e i cervi.

“Va bene Carlo, questa non te la perdono. Mi porti fuori e inviti anche Marco?” dissi arrabbiato.

“Ma è con il suo uomo, ora. Non dovrebbe rompere più di tanto” aggiunse Giulio con la sua precisione impeccabile.

“Non è questo il punto, Giulio” precisai. “Se ci fosse una possibilità di rimanere nella stanza con lui da solo, scommetto che non gli si rizzerebbe più di tanto, anche se fossi nudo come mamma mi ha fatto. Non che a me si rizzerebbe, comunque. Acqua passata. Il problema è che lo sapete bene, non ho ancora superato la fase d’incazzatura con quella persona. Spero che se ne stia alla larga il più possibile, oppure gli metto le mani addosso e lo riempio di botte, tanto da meritarmi la misura cautelare di avvicinamento. Piuttosto che starmene da solo con lui, salterei di nuovo tra le braccia di Raniero”.

Raniero! Ecco come si chiamava la sveltina che avevo incrociato prima!

“Ah, lo hai visto?” mi chiese candidamente Carlo.

“Non è questo il punto, Carlo! Era un modo di dire e…” fui interrotto da una serie di saluti e una pacca sulla spalla.

“Luca! Quanto tempo che non ti vedo!” Nicola mi abbracciò calorosamente facendomi perdere il filo del discorso. Contraccambiai l’abbraccio ed egli mi presentò il suo nuovo ragazzo. Un po’ troppo giovane per quanto potei costatare. Salutai anche Franco e Piero e, sforzandomi il più possibile, salutai anche Marco e il suo nuovo compagno. Fortunatamente fu quasi indolore. Poi entrambi si gettarono nella bolgia che c’era sulla pista da ballo e non li vidi per tutto il resto della serata. Anche perché ebbi qualcosa di meglio da fare, grazie al cielo.

Nicola ci presentò un nuovo ragazzo, Valerio, il convivente del compagno. Ancora per poco, mi precisò, perché stavano pensando di andare a vivere insieme. Valerio catturò immediatamente la mia attenzione. Riconobbi in lui il ragazzo che stava leggendo il libro nel separé, quello che mi aveva fatto notare Max. Il suo volto era abbastanza comune, bello in maniera semplice ma con due occhi espressivi e intelligenti che catturavano l’attenzione e illuminavano il viso. Tra le mani stringeva una copia sdrucita dei “Fiori del Male” di Baudelaire.

“Ti ho visto prima mentre leggevi al tavolino” ammisi “come facevi a leggere in questo girone infernale?” gli chiesi.

“Ci tentavo. Non ci ho capito molto ma almeno allontanavo le persone non gradite” mi confidò.

“In effetti, non siamo tra topi di biblioteca” azzardai io.

“Un libro è un ottimo deterrente a volte” mi schiacciò l’occhiolino.

“Non per Luca” s’intromise Nicola “è professore di lettere!”

Mi parve di cogliere un lampo d’interesse passare sul volto del nuovo ragazzo. Cercai di destreggiarmi per evitare il complimento intrinseco: “Non si parla di lavoro al bar, Nico.” Lo redarguii bonariamente.

“Okay, professore. Mettimi la nota sul diario che te la faccio firmare da mamma” scherzò di rimando.

“Conosci Baudelaire?” mi chiese Valerio. I suoi occhi erano accesi dall’interesse.

“Non benissimo ma qualcosa ho letto”.

Lui aprì una pagina e cominciò a declamare: ”Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento scivolante sopra gli abissi amari. Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell'azzurro, goffi e vergognosi, miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi, candide ali, quasi fossero remi. Com'è intrigato, incapace, questo viaggiatore alato! Lui, poco addietro così bello, com'è brutto e ridicolo”.

“L’albatro” dissi riconoscendo la poesia. “La perfetta descrizione di un vecchio professore di lettere goffo e impacciato”.

Mi guardò negli occhi: “Un professore di lettere non si trascina mai sulla coperta di una nave. Un professore come te lo si ammira mentre spicca in volo elegante, sulle onde del mare”.

“Ti sei appena guadagnato da bere” gli dissi prendendolo sotto braccio e guidandolo verso la postazione di Max.

Quando fummo di fronte al mio amico barista, lui mi guardò sornione e mi fece l’occhiolino: “Ehi prof. Hai trovato il tuo alunno a quanto pare”.

Gli sorrisi conscio del fatto che aveva già fatto due più due ancor prima di me: “E tu ti sei guadagnato la laurea in matematica, furbetto!”.

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