Jehuda era un poco di buono. Uno sbandato della società ebraica. La sua gioventù era stata dura. Ultimo di tredici figli, il padre in carcere da una vita, la madre, troppo occupata nel racimolare qualche centesimo di dracma per riuscire a sfamare la sua nidiata di figli, lo abbandonava spesso ai suoi fratelli e sorelle, che avevano meglio da fare che curare un bimbetto piagnucoloso. A cinque anni aiutava già i fratelli nella mietitura, quando riuscivano a trovare un mezzadro che li prendeva come braccianti. Così si arrabattava a trovarsi cibo e sostentamento per le vie di Gerusalemme, rubacchiando spesso qualche frutto al mercato gremito di folla. Era un ladruncolo, certamente, ma era orgoglioso di poter dire che non aveva mai rubato nulla di valore: solo qualche dattero e magari un pezzo di pane, quando aveva fortuna. Soprattutto era un ladro d’amore. Nascondeva la sua vera natura: nella società ebraica l’amore tra due uomini non era tollerato. Non come tra i Romani e i Greci che invece si vantavano dei loro rapporti Eromenos/Erastès. Aveva avuto parecchi amanti durante la sua vita, soprattutto tra i legionari romani, che lontani dalle loro mogli, sfogavano i propri aneliti sessuali con coloro che avevano a disposizione, senza far distinzione di sesso e di età.
Jehuda però era innamorato. Profondamente soggiogato dallo splendore di un suo concittadino ebreo. Era innegabilmente affascinato da Jeshùa, dal suo camminare, dal suo parlare alle folle e magnetizzare le genti, da quei lineamenti nobili, dai suoi occhi gentili, dai suoi lunghi capelli scuri.
I capelli di Jeshùa erano stati massaggiati anche da Marya, che li aveva unti con un balsamo e accarezzati a lungo, e questo lo aveva fatto impazzire di gelosia. Quelle donne, tutte quelle donne che gli giravano intorno, gli parevano tutte uguali, si chiamavano tutte Marya. Quella soprattutto, poi! Si sapeva la professione che aveva fatto prima di incontrarlo, e ancora metteva quelle vesti rosse e sgargianti che le fasciavano i fianchi e mettevano in mostra il grande seno che era stato toccato da centinaia, se non da migliaia di uomini.
Ma gli occhi di Jehuda non si curavano di quelle rotondità femminili, i suoi occhi erano solo per Jeshùa. Un turbamento lo scuoteva ogni volta che ne riceveva uno sguardo. Perché Jeshùa sapeva, gli leggeva nel cuore, gli sorrideva, finendo per sconvolgerlo ancora di più.
La sua luce lo confondeva. Seguiva le sue labbra, piene e carnose, quella sua voce profonda e sensuale che parlava ai cuori, penetrando nell’animo. Tutti adoravano Jeshùa.
Ma Jehuda no. Lui lo amava.
Jehuda, nonostante avesse fama di ladro, era cassiere dei denari comuni della piccola comunità. Un lavoro che tutti evitavano perché preferivano il rapimento delle parole di Jeshùa. Si fidavano di lui, perché era orgoglioso, di non essere un ladro. Di denaro non ne sottraeva e non lo avrebbe mai fatto, lui rubava soltanto l’amore. Jehuda era diverso dagli altri, seguiva il suo istinto, non capiva: egli “sentiva”. Portava con sé l’urna ricolma di soldi, pesante, come un facchino, con fatica. Forse era solo per questo che gli altri lo tenevano con sé, come bestia da soma.
Per questi motivi, aveva l’animo pieno di rancore verso tutti ad eccezione di quell’uomo che amava. Provava una fitta di gelosia anche verso Yehohanàn, il più giovane della comunità, che godeva di un’attenzione particolare da parte di Jeshùa, forse per il fatto di essere il più piccolo. Proprio grazie a questa predilezione da parte della loro guida, si approfittava di alcune libertà verso di lui, che tutti gli altri non avrebbero mai osato prendere. Spesso gli posava il capo sulle gambe e faceva moine e fusa come un gatto, riusciva a intenerire talmente Jeshùa che questi, inconsciamente, era spinto ad accarezzare i capelli ricci di Yehohanàn e il suo capo appoggiato su di lui. Che razza di ruffiano!
Una sera di primavera, aveva preso posto alla mensa, come tutti, e Jeshùa gli si era seduto vicino. Jehuda aveva un modo tutto suo di mangiare: sembrava abbracciare la sua scodella, quasi a proteggerla, come fanno i cani che mangiano guardinghi e vigilanti. Troppi anni di stenti in mezzo alla strada lo avevano reso prudente e sospettoso verso tutti, proprio come un cane randagio. Jeshùa superò quell’effimera barriera, entrò nel cerchio delle sue braccia e affondò il pane, dolcemente, a fondo, nel suo miserabile piatto. Jehuda fremette, lo percorse una vampa di calore, sarebbe quasi anche svenuto per quel flebile contatto intimo e sensuale, ma Jeshùa gli parlò con voce chiara, perché tutti sentissero: “Stasera mi tradirai”.
Jehuda non capì, paralizzato dall’imbarazzo provò un dolore infinito. Abbassò il capo, si alzò e se ne andò.
Prese per la strada di Jerusalem e si fermò alla taverna. Bevve del vino, troppo vino, e si appartò con un soldato di Kaiafa. Dopo quel rapporto di sesso animale, violento, straziante, ricordò il volto e la frase di Jeshùa. La commozione lo colse repentinamente e scoppiò in un pianto straziante e disperato. Il soldato gliene chiese il motivo e Jehuda si confidò, gli raccontò del suo amore non ricambiato e nascosto per l’uomo dai lunghi capelli corvini. Il soldato ascoltò e vide in questa confessione l’occasione per fare qualche soldo, lo accompagnò a forza dal suo comandante, che lo interrogò duramente. Sentendosi come un topo in una tagliola, Jehuda parlò, accettando, suo malgrado, la taglia di trenta denari che Kaiafa pagava per la cattura del ricercato, il terrorista Jeshùa dai capelli profumati di unguento d’incenso, sobillatore di genti, e lo costrinse a condurlo da lui. Jehuda capì solo allora di avere venduto il suo amore, purtroppo aveva già accettato i denari e dovette condurli sulla collina coperta di ulivi, nel luogo chiamato Getsemani, dove Jeshùa sembrava aspettarli. Jehuda chiese solo una cosa al comandante dei soldati: di poter salutare Jeshùa dai lunghi capelli. Il comandante pretese in cambio i denari, e Jehuda fu sollevato nel restituirglieli tutti. Il loro peso era già diventato insopportabile.
Quando arrivarono nel campo, tutti dormivano ad eccezione dell’uomo che amava, gli si avvicinò, Jeshùa capì e lo accolse tra le sue braccia, con tenerezza, stringendolo a sé. Premette le labbra su quelle di Jehuda e gli diede un bacio sapido e fresco, che sapeva di vino speziato.
Fu l’unico bacio che il ladro d’amore, in vita sua, non dovette rubare. Il capo manipolo diede l’ordine di portare via il Nazareno, lasciando Jehuda nella disperazione di non rivederlo mai più.
Per il povero uomo il dolore fu insostenibile. Vagò un po’ per i dintorni di Jerusalem, ma quando giunse al campo del Vasaio, si tolse la cinta che stringeva la sua tunica e, legandola al ramo di un sicomoro, compì il suo destino. Il campo da allora si chiama Alkedamà, che in ebraico significa “Campo di Sangue”.
Se questo racconto lo leggesse un uomo di chiesa...scateneresti un putiferio...
RispondiEliminaNon penso proprio, sono ben più interessati a nascondere altri segreti. Ci sono anche altri racconti che trattano questo tema, "L'ultima notte" è uno di questi. Tra due settimane, mercoledì ne leggerete un altro. Già in produzione.
RispondiEliminaL'ultima notte io l'ho letteralmente adorato...Concordo con te..sono più portati a cercare di tenerle nascoste le cose =)..Sicuramente leggerò anche quello di mercoledì..ormai non mi spiccico più dal tuo blog
RispondiEliminaho creato un mostro! :D
RispondiEliminaEhehehheh..direi di si XD
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