venerdì 11 settembre 2015

OLIVER SACKS (LUGLIO 1933 - AGOSTO 2015)

 
 
 
Testimonianza di Oliver Sacks* pubblicata** su “la Repubblica” del 20 agosto 2015
 
Mia madre e i suoi 17 fratelli e sorelle ricevettero un’educazione ortodossa: in tutte le fotografie, mio nonno porta la kippah, e mi hanno detto che se gli cadeva, di notte, si svegliava. Anche mio padre proveniva da un ambiente ortodosso. Entrambi i miei genitori erano molto consapevoli del Quarto Comandamento («Ricordati del giorno di sabato per santificarlo»), e lo Shabbat (Shabbos, come lo chiamavamo noi, ebrei lituani) era un giorno completamente diverso dal resto della settimana.

Nessun lavoro era permesso, né guidare, né usare il telefono; era proibito accendere una luce o una stufa. Essendo medici, i miei genitori facevano delle eccezioni. Non potevano staccare il telefono o evitare del tutto di guidare; dovevano essere disponibili, se necessario, per vedere i pazienti, o operare, o far nascere dei bambini. Vivevamo in una comunità ebraica abbastanza ortodossa a Cricklewood, nel nord-ovest di Londra — il macellaio, il panettiere, il droghiere, il fruttivendolo, il pescivendolo, tutti chiudevano i loro negozi in tempo per lo Shabbos, e non riaprivano i battenti fino alla domenica mattina. Tutti loro, e tutti i nostri vicini, pensavamo, celebravano lo Shabbos più o meno come facevamo noi.
Recitai la porzione del mio Bar Mitzvah nel 1946 a una sinagoga relativamente piena, con diverse decine di miei parenti, ma quella, per me, fu la fine della pratica ebraica formale. Non rispettai i doveri rituali di un adulto ebreo — pregare ogni giorno, mettendo i Tefillin prima della preghiera mattutina nei giorni feriali — e diventai via via più indifferente alle credenze e alle abitudini dei miei genitori, anche se non vi fu nessun particolare punto di rottura fino ai 18 anni. Fu allora che mio padre, indagando sui miei sentimenti sessuali, mi costrinse ad ammettere che mi piacevano i ragazzi. «Io non ho fatto niente», dissi, «è solo una sensazione — ma non dirlo a mamma, non lo capirebbe». Lui, invece, glielo disse, e lei, la mattina dopo, scese con una smorfia di orrore sul viso, urlandomi: «Tu sei un abominio. Vorrei che tu non fossi mai nato». (Pensava senza dubbio al versetto del Levitico che dice: «Se un uomo giace con un uomo, come si fa con una donna, ambedue hanno commesso cosa abominevole: saranno sicuramente messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro».) Non si parlò più di questo argomento, ma la durezza delle sue parole mi fece odiare il lato intollerante e crudele della religione.
Dopo essermi laureato in medicina, nel 1960, mi allontanai bruscamente dall’Inghilterra, dalla famiglia e dalla comunità che avevo lì, e me ne andai nel Nuovo Mondo, dove non conoscevo nessuno. Trasferitomi a Los Angeles, trovai una sorta di comunità tra i sollevatori di pesi nella Muscle Beach, e con i miei colleghi neurologi residenti presso la Ucla, ma cercavo un legame più profondo — un “significato” — nella mia vita, e fu la sua mancanza, credo, a portarmi a una dipendenza quasi suicida dalle anfetamine negli anni Sessanta. Cominciai lentamente a riprendermi quando trovai un lavoro significativo a New York, in un ospedale del Bronx per malattie croniche (il Mount Carmel di cui ho scritto in Risvegli ). Ero affascinato dai miei pazienti, mi stavano molto a cuore e sentii che era una specie di missione raccontare le loro storie. Avevo scoperto la mia vocazione, e la seguii con ostinazione, risolutamente, ben poco incoraggiato dai miei colleghi. Quasi inconsciamente, diventai un narratore in un momento in cui la narrativa medica si era quasi estinta. Per molti anni avrei vissuto una vita solitaria, quasi monastica, ma profondamente soddisfacente.
Negli anni Novanta, conobbi un cugino mio coetaneo, Robert John Aumann, un uomo di bell’aspetto, con la sua corporatura atletica e robusta e una lunga barba bianca che già a 60 anni lo faceva sembrare un vecchio saggio. È un uomo dalle grandi capacità intellettuali, ma anche di grande calore umano e tenerezza, con una profonda devozione religiosa – “devozione”, infatti, è una delle sue parole preferite.
In un’interessante intervista del 2004, Robert John parlava del suo lavoro di una vita nell’ambito della matematica e della teoria dei giochi, ma anche della sua famiglia — di come andasse a sciare e a fare alpinismo con alcuni dei suoi quasi 30 figli e nipoti (li accompagnava sempre un cuoco kosher con le sue pentole) — e dell’importanza dello Shabbat per lui. «L’osservanza dello Shabbat è molto bella», diceva, «ed è impossibile se non si è religiosi ».
Nel dicembre del 2005, Robert John ricevette il premio Nobel per i suoi cinquant’anni di lavoro fondamentale nel campo dell’economia. Non fu un ospite facile per il Comitato del Nobel, perché andò a Stoccolma con la sua famiglia, compresi molti di quei figli e nipoti, e tutti dovevano avere piatti kosher, utensili e cibo particolari, e abiti da cerimonia speciali, senza mescolanze di lana e lino proibite dalla Bibbia. In quello stesso mese, mi diagnosticarono un cancro a un occhio, e mentre ero in ospedale per la terapia, il mese successivo, Robert John venne a trovarmi.
Mi raccontò un mucchio di storie divertenti sul premio Nobel e sulla cerimonia a Stoccolma, ma ci tenne a dire che, se fosse stato costretto a recarsi a Stoccolma di sabato, avrebbe rifiutato il premio.
Nel 1955, avevo 22 anni, andai in Israele per diversi mesi a lavorare in un kibbutz, e anche se mi piacque, decisi che non ci sarei tornato. Benché molti dei miei cugini si fossero trasferiti lì, la politica del Medio Oriente mi disturbava, e sospettavo che mi sarei sentito fuori luogo in una società profondamente religiosa.
Nella primavera del 2014, avendo saputo che mia cugina Marjorie era vicina alla morte, le telefonai a Gerusalemme per dirle addio. La sua voce era sorprendentemente forte e risonante, con un accento molto simile a quello di mia madre. «Non ho intenzione di morire adesso», disse. «Festeggio i miei cent’anni il 18 giugno. Verrai?». Risposi: «Sì, certo! ». Fu puramente una visita di famiglia.
Festeggiai i cent’anni di Marjorie con lei e la famiglia allargata. Vidi altri due cugini a me cari nei miei giorni londinesi, innumerevoli cugini di secondo grado di cui non mi ricordavo più e, naturalmente, Robert John. Mi sentii abbracciato dalla mia famiglia in un modo che non avevo più sperimentato dopo l’infanzia.
Avevo un po’ paura nel visitare la mia famiglia ortodossa con il mio compagno, Billy — le parole di mia madre riecheggiavano ancora nella mia mente — ma anche Billy fu accolto calorosamente. Quanto fosse profondamente cambiato l’atteggiamento, anche tra gli ortodossi, fu definitivamente chiarito da Robert John quando invitò Billy e me a unirci a lui e alla sua famiglia per il pasto di apertura dello Shabbat. La pace dello Shabbat, di un mondo che si ferma, in un tempo fuori dal tempo, era palpabile, pervadeva tutto, e mi ritrovai immerso nella malinconia, qualcosa di simile alla nostalgia, a chiedermi: e se A e B e C fossero stati diversi? Che persona sarei stata? Che vita avrei potuto vivere?
Nel dicembre del 2014, ho completato il mio libro di memorie, On the Move, e dato il manoscritto al mio editore, senza immaginare che pochi giorni dopo avrei saputo di avere un cancro metastatico, proveniente dal melanoma nel mio occhio di nove anni prima.
Sono felice di aver potuto completare il mio libro di memorie senza saperlo, e di essere stato in grado, per la prima volta nella mia vita, di fare una dichiarazione completa e franca sulla mia sessualità, affrontando il mondo apertamente, senza più racchiudere dentro di me segreti colpevoli. A febbraio, ho sentito che dovevo essere altrettanto sincero riguardo al mio tumore. Ero in ospedale quando è stato pubblicato sul New York Times il mio articolo su questo tema.
E ora, debole, col fiato corto e i muscoli una volta sodi sciolti dal cancro, trovo che i miei pensieri, non sulle cose soprannaturale o spirituali, ma su cosa si intende per vivere una vita buona e utile — hanno provocato un senso di pace dentro di me. Scopro che i miei pensieri vanno allo Shabbat, il giorno di riposo, il settimo giorno della settimana, e forse il settimo giorno della nostra vita, quando possiamo sentire di aver fatto il nostro lavoro, e di potere, in buona coscienza, riposare.
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* Oliver Wolf Sacks (Londra, 9 luglio 1933) è un neurologo, scrittore e chimico britannico, dal 2012 docente di neurologia. Sacks è autore di numerosi libri best seller,[2] molti dei quali hanno per soggetto persone con disturbi neurologici. Il suo libro del 1973 Risvegli fu adattato in un film omonimo nel 1990.

** Traduzione di Luis E. Moriones, Pubblicato in anteprima sul New York Times

martedì 8 settembre 2015

IL NOSTRO CARO ANGELO



Lehahiah, o Lehehiyah, è il 34esimo Soffio e il secondo raggio angelico nel Coro marziano degli Angeli Potestà, nel quale amministra le energie di Saturno. Il suo elemento è la Terra; ha domicilio Zodiacale dal 15° al 20° della Vergine ed è l'Angelo Custode dei nati dall’8 al 12 settembre. I sei Angeli Custodi della Vergine sono potenze che collettivamente fanno dei loro nati persone acute, comunicative, servizievoli, laboriose e precise.

Il nome di Lehahiah significa “Dio di conoscenza” o "Dio clemente"

Il dono dispensato da Lehahiah è la RETTITUDINE.  

Dice Haziel che questo Angelo concede i suoi doni e poteri all'individuo perché questi li metta a disposizione di qualche figura di valore, o storicamente importante, per assisterla con devozione, rispetto, serietà, lealtà e disciplina, ed esserne in cambio generosamente ripagato. Nella vita quotidiana questa prerogativa si traduce nella tendenza, per i protetti da Lehaiah, a godere della piena fiducia da parte dei superiori, che in ambito professionale concederanno loro ogni genere di ricompensa legata al lavoro. Questo Angelo ama chi lavora duramente, ma concede la completa sicurezza nella continuità dell'impiego. I suoi protetti dovranno restare a stretto contatto con i loro capi, poiché l'ascesa dei superiori implicherà anche la loro; e con l'aiuto dell'Angelo potranno raggiungere posizioni invidiabili. Dice Haziel che Lehahiah struttura mirabilmente la vita materiale e se invocato imprime una forte accelerazione a tutte le nostre azioni. La sua energia propizia l'affermazione del grande industriale, dell'uomo che scolpisce la propria opera con tutta la forza dell'ambizione; ogni cosa, nella vita delle persone da Lui protette, avrà una sfumatura militare. Quest'Angelo conferisce forma definitiva al progetto che la persona difende ardentemente, possibilmente ad indirizzo nobile ed elevato. Protegge i re e i principi, assicurando solidità al regno e inducendo i sudditi alla lealtà che si prova verso coloro di cui si riconosce il carisma.

 


Secondo la Kabbalah, tre versetti dell'Esodo (ciascuno composto da 72 lettere), celano il codice dei 72 Nomi di Dio; e precisamente i versetti 19, 20 e 21 del capitolo 14. Riguardo all'origine precisa delle lettere nel trigramma di questo Nome la lettera Lamed (aiguillon de boeuf) proviene da: "l'Angelo di Dio che stava davanti al campo di Israele si mosse e si mise dietro di loro" (Esodo 14, 19). La He (finestra), da: "questa nube da un lato (cioè per alcuni) era tenebrosa, dall'altro (cioè: per altri) rischiarava la notte" (Es. 14, 20). La Heit (barriera), da: "e l'Eterno ritirò il mare con forte vento da Oriente" (Es. 14, 21). Ne esce l'immagine di una dirittura spirituale che consente di adattarsi a tutte le situazioni. Questi segni suggeriscono anche che l’energia di questo angelo aiuti a mantenersi calmi nei momenti in cui potremmo farci prendere dalla collera: Lehahiah è infatti considerato anche l’angelo del placarsi.. viceversa (non per niente) l'angelo avversario induce proprio violenza e collera!

La radice lamed-he-heth contiene il concetto la mia crescita spirituale cerca la sua legge sempre più in là. Sibaldi descrive questa dinamica dicendo che i protetti di questa Potestà crescono come bambini, per tutta la vita. Il mondo, la mente, il corpo – anche il loro proprio corpo – sono e rimarranno sempre, per i Lehehiyah, luoghi di scoperte: ciò che ne sanno oggi, lo supereranno domani; e qualunque cosa ne possano imparare dagli altri, diverrà per loro una sfida ad andare oltre. Era un Lehehiyah l’esploratore Henry Hudson, che nel Cinquecento cercava il passaggio a Nordovest del continente americano, per allargare ancor di più i confini del mondo conosciuto; e Lev Tolstoj, che fino a ottant’anni continuò a distruggere sistematicamente le certezze altrui, senza che né le persecuzioni del regime, né la scomunica della sua Chiesa bastassero a fermarlo; e Riccardo I, detto Cuor di Leone, che non riusciva proprio a restarsene seduto sul suo trono, tanto lo attiravano le imprese sempre nuove: in Palestina, a Cipro, in Francia; e Jesse Owens, l’atleta nero che a Berlino, nel 1936, non si limitò a far infuriare il Führer battendo gli ariani nei cento metri, ma come per dispetto vinse subito dopo altre tre medaglie d’oro. Vincere, anzi trionfare, è appunto una delle esigenze fondamentali dei Lehehiyah. Non si accontentano dell’emozione del limite infranto, vogliono conquistare il vasto territorio che si apre più in là; non basta, a loro, dimostrare che un’opinione o una teoria altrui è insufficiente, ma ne strutturano dettagliatamente una nuova – che poi puntualmente supereranno ancora, di lì a non molto. Quale che sia il campo a cui abbiano scelto di dedicare le loro ricerche (ricerche scientifiche o di nuove forme espressive, di primati da battere, di nuovi mercati o di una nuova morale), diventano perciò con grande facilità individui di spicco. Li aiuta, in questo, anche l’abilità con la quale sanno farsi valere, suscitando irresistibilmente il rispetto sia dei colleghi sia anche, e soprattutto, dei superiori. I capi, in particolare, li amano: avvertono, nei Lehehiyah, un modo di pensare simile al loro, una competenza dirigenziale, e non è raro che accanto a un direttore generale, o sindaco, o presidente di qualcosa si trovi un consigliere o magari un coniuge o un amante nato in questi giorni, che dà consigli e comunica energia. I Lehehiyah si accorgono presto di avere questa prerogativa con i potenti, e di solito sanno sfruttarla bene. Più avanti (superandosi sempre, com’è loro uso) arrivano anche a intuirne le ragioni profonde: nei capi essi proiettano quello che è il vero motore e il vero obiettivo della loro crescita perenne: il loro Atman, il Sé, come direbbero gli psicologi. Si accorgono cioè di vedere, nei superiori, la parte migliore di se stessi: vi scorgono qualità che loro stessi hanno e che devono sviluppare, o modi efficaci di correggere qualche difetto che in se stessi hanno notato. E questa identificazione esercita un inconscio potere fascinatorio a cui nessun capo riesce a sottrarsi. Ma non appena i Lehehiyah si accorgono di questa dinamica, cessano di averne bisogno: la loro crescita diviene allora un autonomo slancio dello spirito e trova forme sempre più anarchiche e innovative, tali che nessuno status quo può più contenerle. Allora, veramente, cominciano a cambiare il mondo, come avviene a molti protagonisti tolstoiani e come avvenne a Tolstoj stesso nella seconda metà della sua vita. Due gravi rischi minacciano tuttavia questa bella evoluzione dei Lehehiyah. Il primo è la collera, insidia immancabile di ogni crescita spirituale. La loro insofferenza per la routine può trasformarsi in un’indignazione, in un odio addirittura, per coloro che nella routine si sono rassegnati a vivere: questo è, da ogni punto di vista, un errore, un voltarsi indietro invece di guardare avanti, un fermarsi a esigere l’approvazione di chi non ha e non comprende le loro doti. È una debolezza che nasconde, in realtà, una paura delle altezze che il Lehehiyah potrebbe raggiungere. Ma è anche una tentazione fortissima: l’indignazione inebria, è emozionante sentirsi eroi, profeti, davanti alla gente che ancora non sa. Il guaio è che quella gente è, nel mondo, una schiacciante maggioranza, e un Lehehiyah che si abbandoni alla collera nel guardarli può precipitare facilissimamente nella disperazione, se non ha modo di farsi ascoltare come vorrebbe, o persino nella spietatezza verso i suoi sottoposti, se nel frattempo ha acquisito un qualche potere (come avvenne per Marcos, dittatore delle Filippine), o magari verso i parenti, se il Lehehiyah è il capo famiglia. L’altro rischio è il ripiegarsi su se stessi, il trasformare la voglia di superare i limiti altrui in un’eccessiva attenzione per i propri. Il vigore con cui i Lehehiyah sanno distruggere le vecchie certezze diviene allora una dolorosa ansia di perfezione personale che fa di ogni loro difetto, anche minimo, un problema assurdamente enorme. Il perfezionismo è un sintomo di nevrosi, un segnale di allarme: per i Lehehiyah – anche per i più dotati fra loro – può diventare una passione infinita da cui, senza accorgersi, si lasciano avvolgere, come da un vortice. L’introversione ossessiva che ne deriva può portarli alla paralisi esistenziale. Il Lehehiyah Cesare Pavese imboccò a un tratto questa strada e, pur con tutta la grandezza del suo animo, non riuscì più a uscirne. L’antidoto sarebbe semplice: un po’ di autoironia, di leggerezza, nel pensare a se stessi; ma occorre cogliere per tempo i sintomi del perfezionismo, prima che le enormi energie dei Lehehiyah se ne lascino ipnotizzare.



Qualità di Lehahiah e ostacoli dall'energia "avversaria"

Lehahiah sviluppa la capacità di ascolto, disponibilità, comprensione, obbedienza; altruismo, fedeltà, serietà. Comprensione delle Leggi divine. Capacità di rendersi preziosi ai superiori; senso dell’ordine e della disciplina; rigore. Dona inoltre la capacità di riappacificare i contendenti e la facoltà di placare ogni sorta di violenza e ira. L'Angelo dell'Abisso a lui contrario si chiama Raner e rappresenta la violenza e la collera pericolosa. Provoca discordia, liti, guerra e rivoluzione.



Meditazione associata al Nome

La meditazione associata a Lehahiah si chiama chiama "relativizzarsi". Secondo la Kabbalah, infatti, la vibrazione di queste lettere consente di percepire come tutto quello che vediamo nella vita materiale altro non è che un'emanazione dell'Albero della Vita e concede, attraverso un'intima tensione, di collegarsi trascendendo l'ego: cioè relativizzando tutto quello che crea attaccamento alle nostre opinioni e riducendo così i blocchi e la staticità che ne discendono.
 
Meditazione • Ora, concentrando la tua visione sulle lettere ebraiche della radice del Nome, senza pensare ad altro, respira e, lasciandoti permeare profondamente e a lungo dal suo significato, pronuncia questa intenzione: per la Luce di questo Nome trascendo il mio ego e mi tendo verso l’Albero della Vita. Ora che mi distacco dall’ego la felicità riesce a raggiungermi. Io lascio cadere la testardaggine e coltivo l’arte di non boicottami da solo.



Esortazione angelica

Lehahiah esorta a orientare le proprie energie verso un progetto universale, diventando coscienti delle proprie potenzialità e mettendole al servizio del bene comune.


Giorni e orari di Lehahiah

Se sei nato nei suoi giorni di reggenza Lehahiah è sempre in ascolto per te; ma in particolare le sue energie si schiudono nelle date del tuo compleanno e negli altri 5 giorni che ti sono dati dal calcolo della Tradizione. Suoi giorni di reggenza sono anche: 10 febbraio, 24 aprile, 7 luglio, 20 settembre, 1 dicembre; ed egli governa ogni giorno, come "angelo della missione", le energie dalle h.11.00 alle 11.20. Assiste perciò, in particolare, anche i nati in questi giorni e in questo orario, in qualunque data di nascita, ed è questo l'orario migliore in cui tutti lo possono invocare. La preghiera tradizionale rivolta a Lehahiah è il 3° versetto del Salmo 130: Speret Israel in Domino ex hoc nunc et usque in saeculum (spera Israele nel Signore, ora e sempre).


 

lunedì 7 settembre 2015

CERCHIO


 
Il cerchio si è chiuso.
Fai parte del mio essere, del mio esistere.
 
 
(Romano Battaglia)