Post tratto dal blog Il marito dello sposo del 17 agosto 2013
Qualche giorno fa, sono andato a trovare i miei genitori. Dopo il pensionamento di mio padre, si sono trasferiti fuori Roma, nei pressi di Cerveteri, invecchiando hanno optato per uno stile di vita più sano, una casa con un giardino, un piccolo orto, galline ovaiole e due cani. La scelta radicale, con gli anni si è rivelata vincente, oggi sono una splendida coppia di ottantenni, sobri e rilassati.
Erano passati diversi mesi dall'ultima volta che avevamo pranzato insieme solo noi tre, a tavola tra un piatto di spaghetti e una frittata di erba cipollina, mi fanno un recap sulle vicissitudini di zii, cugini, e amici di famiglia, poi mia madre si alza per preparare il caffè e con tono preoccupato mi dice "Hai letto di quel ragazzino gay di quattordici anni, che si è suicidato?" ...
"Si mamma ho letto", mentre avvita la moka e la mette sul fuoco, continua: "A volte ci penso, penso al mondo triste che stiamo lasciando noi vecchi, i giovani non imparano mai dagli errori e dalle mancanze degli adulti, se un giovane si toglie la vita è perché prima è stato escluso e non è stato messo in condizione di esprimersi liberamente".
Mio padre prende la parola: "Noi, che tu eri gay, lo avevamo capito fin da quando eri piccolo, eravamo preoccupati, non avevamo gli strumenti per affrontare questa cosa e ci illudevamo che non fosse vero, fino a voler credere che le nostre certezze fossero solo sensazioni sbagliate; però questo succedeva più di trent'anni fa e sapere che in Italia esistono ancora genitori che non sono in grado di comprendere e rassicurare i loro figlioletti gay , mi dispiace"
Mia madre versa il caffè nelle tazzine, le poggia sul tavolo, si siede e mentre le zucchera mi dice "Questa notizia mi ha fatto venire in mente una cosa che mi capitò quando avevo io quattordici anni, mentre tornavo a casa notai che un ragazzino magrolino, veniva preso in giro da un guppetto di coetanei, “brutto gay” gli dicevano, “fai schifo, sei malato”, lui piangeva e li suplicava di lasciarlo perdere, loro continuavano a dirgli “gay! Sporco gay”, mi sono avvicinata, avevo paura e mi sudavano le mani, ma ho iniziato comunque a urlagli contro; vergognatevi! Lasciatelo perdere, voi siete in tanti e lui e solo, andate via.
Lo dissi a brutto muso e loro sorpresi e disorientati se ne andarono, il ragazzino, mi ha guardato per un attimo e poi è scappato via", finisco di bere il caffè, la guardo intenerito ...
Mia madre giovane eroina della causa, però c'è una cosa che non mi quadra in questo racconto e glie lo dico sorridendo "Però, mamma mi risulta difficile, pensare che in una borgata romana degli anni '40 usassero la parola gay"
"E' vero, gli gridavano “frocio”, ma è una parola talmente brutta e umiliante che andrebbe abolita, è una parola che mi imbarazza dirla, specialmente davanti a te che sei mio figlio e che ti amo tanto".
Ovviamente da parte mia è scattato un abbraccio.
Tornando a casa, ripensavo a quella conversazione familiare e mi venne in mente anche a me un aneddoto, che dopo le parole di mio padre, rilessi in maniera più complessa;
Avevo anche io circa quattordici anni, frequentavo il primo anno dell'istituto d'arte ed ero affascinato dal movimento punk, come molti ragazzini, sperimentavo una identità sociale possibile, portavo i capelli con una cresta rosso lacca e un giorno, mio zio si rivolse a mio padre con me presente: "Ma, tuo figlio che si tinge i capelli? Sarà mica un frocio ?!", le parole di mio zio, mi arrivarono come una bastonata, ero stato scoperto, non sapevo come reagire ... mio padre guardandomi fisso negli occhi, gli rispose a tono " Mio figlio è un artista e può fare quello che vuole!" .
Durante l'adolescenza, mi è capitato di essere preso in giro, ma quelle parole di mio padre, quel rispetto del mio “essere artista”, quella fiducia sulla “libertà di fare quello che volevo”, per me sono state un appiglio e hanno contribuito a rafforzami a evitare di sentirmi incompreso, a evitare di sentirmi sbagliato e perché no, magari a evitare, che in un momento di smarrimento ... pensassi di farla finita.
Mio padre prende la parola: "Noi, che tu eri gay, lo avevamo capito fin da quando eri piccolo, eravamo preoccupati, non avevamo gli strumenti per affrontare questa cosa e ci illudevamo che non fosse vero, fino a voler credere che le nostre certezze fossero solo sensazioni sbagliate; però questo succedeva più di trent'anni fa e sapere che in Italia esistono ancora genitori che non sono in grado di comprendere e rassicurare i loro figlioletti gay , mi dispiace"
Mia madre versa il caffè nelle tazzine, le poggia sul tavolo, si siede e mentre le zucchera mi dice "Questa notizia mi ha fatto venire in mente una cosa che mi capitò quando avevo io quattordici anni, mentre tornavo a casa notai che un ragazzino magrolino, veniva preso in giro da un guppetto di coetanei, “brutto gay” gli dicevano, “fai schifo, sei malato”, lui piangeva e li suplicava di lasciarlo perdere, loro continuavano a dirgli “gay! Sporco gay”, mi sono avvicinata, avevo paura e mi sudavano le mani, ma ho iniziato comunque a urlagli contro; vergognatevi! Lasciatelo perdere, voi siete in tanti e lui e solo, andate via.
Lo dissi a brutto muso e loro sorpresi e disorientati se ne andarono, il ragazzino, mi ha guardato per un attimo e poi è scappato via", finisco di bere il caffè, la guardo intenerito ...
Mia madre giovane eroina della causa, però c'è una cosa che non mi quadra in questo racconto e glie lo dico sorridendo "Però, mamma mi risulta difficile, pensare che in una borgata romana degli anni '40 usassero la parola gay"
"E' vero, gli gridavano “frocio”, ma è una parola talmente brutta e umiliante che andrebbe abolita, è una parola che mi imbarazza dirla, specialmente davanti a te che sei mio figlio e che ti amo tanto".
Ovviamente da parte mia è scattato un abbraccio.
Tornando a casa, ripensavo a quella conversazione familiare e mi venne in mente anche a me un aneddoto, che dopo le parole di mio padre, rilessi in maniera più complessa;
Avevo anche io circa quattordici anni, frequentavo il primo anno dell'istituto d'arte ed ero affascinato dal movimento punk, come molti ragazzini, sperimentavo una identità sociale possibile, portavo i capelli con una cresta rosso lacca e un giorno, mio zio si rivolse a mio padre con me presente: "Ma, tuo figlio che si tinge i capelli? Sarà mica un frocio ?!", le parole di mio zio, mi arrivarono come una bastonata, ero stato scoperto, non sapevo come reagire ... mio padre guardandomi fisso negli occhi, gli rispose a tono " Mio figlio è un artista e può fare quello che vuole!" .
Durante l'adolescenza, mi è capitato di essere preso in giro, ma quelle parole di mio padre, quel rispetto del mio “essere artista”, quella fiducia sulla “libertà di fare quello che volevo”, per me sono state un appiglio e hanno contribuito a rafforzami a evitare di sentirmi incompreso, a evitare di sentirmi sbagliato e perché no, magari a evitare, che in un momento di smarrimento ... pensassi di farla finita.
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