Il lavoro di guardia forestale è duro, lunghe camminate per sentieri inerpicati con ogni tipo di tempo: pioggia, neve o sole accecante. Avevamo avuto una bella estate, relativamente calma. Non erano successi incidenti e settembre era ormai alle porte. Anche i bracconieri si prendono le ferie e in quel mese ricominciano le loro attività criminali.
Carlo bussò alla porta del mio ufficio e, con un’aria sconcertata, mi comunicò che un informatore aveva sentito degli spari sopra la malga Pradèla, alle pendici di Cima Turchino. Il bosco era il rifugio di un branco di cervi. Imprecai silenziosamente e decisi immediatamente di salire con la jeep per verificare di persona.
Quando uscii dalla centrale della forestale, notai che il tempo stava volgendo al brutto e rientrai a prendere la cerata impermeabile: “Porca paletta, sta venendo giù un temporale coi fiocchi!” esclamai senza rivolgermi a nessuno in particolare.
“E’ meglio se ti accompagno Sandro.” si offrì Carlo.
“Prendi anche le chiavi del roccolo alto” gli suggerii “In caso il tempo giri al brutto, avremo un tetto sotto il quale ripararci”.
I temporali estivi in alta montagna possono essere molto pericolosi e il legno attira i fulmini, come l’usta della selvaggina, un branco di cani da caccia.
La segretaria che aveva assistito allo scambio di accordi, ci assicurò che sarebbe rimasta fino al nostro rientro. Controllai che le ricetrasmittenti avessero abbastanza carica, Carlo prese gli zaini e le armi e uscimmo nuovamente. Misi in moto la quattro per quattro mentre il mio collega caricava le cose, salì anche lui e partimmo.
Attraversai il paese al limite della velocità consentita, avrei avuto tutte le mie scusanti con Maria, la vigilessa del villaggio, ma non volevo perdere tempo in spiegazioni. Appena fuori paese ingranai la terza e m'inerpicai sulla strada che portava alla Forcola e quindi alla malga Pradèla.
Dubitai fortemente che i bracconieri si trovassero ancora nella zona ma si poteva sempre sperare nella buona sorte.
Raggiungemmo la malga e la superammo, risalendo ancora un po’ la strada sterrata che portava al bosco superiore fin dove la carrareccia ce lo consentiva. Le nuvole si stavano addensando minacciose, i tuoni si susseguivano a poca distanza l’uno dall’altro, tanto forti da coprire la voce gracchiante della radio nell’auto, l’elettricità causava disturbi alla ricezione e si sentivano fastidiose scariche statiche raccolte dall’antenna. Arrivammo all’ultima piazzola disponibile per il parcheggio, prendemmo il materiale e ci incamminammo sul sentiero che portava al bosco.
Presi la legna a disposizione e accesi un fuoco per scaldarci e cercare di asciugare le divise d'ordinanza.
Mi sfilai la camicia di spesso cotone e la appesi allo schienale della sedia rivolgendola verso il focherello che già crepitava allegramente. Carlo fece altrettanto. Entrambi ci togliemmo anche il resto dei vestiti che erano completamente zuppi e rimanemmo in mutande davanti al camino.
“Certo!” affermai poi senza convinzione,
Ci fu un attimo di silenzio tra di noi, la pioggia riempiva le parole non espresse a voce.
Mi alzai e presi una coperta dal piccolo armadio a muro.
“Tieni, prendi questa. Hai la pelle d’oca” gliela allungai guardandolo negli occhi. Erano di un azzurro intenso, non me n’ero mai accorto.
Carlo la aprì e se la mise sulle spalle, poi avvicinò la sedia alla mia e ne alzò un lembo verso di me: “Vieni, ce n’è abbastanza per tutti e due”.
“Hai paura dei tuoni?” chiesi con uno sguardo divertito.
Si voltò verso di me quasi scandalizzato: “Assolutamente no”.
I nostri volti erano a pochi centimetri di distanza.
“Ti ho sentito tremare” gli dissi quasi scusandomi.
“Non per la paura” mi spiegò.
Silenzio e scrosci, lampi e tuoni ravvicinati.
Non capivo il motivo del tremore. Se non era paura, era freddo, ma la sua pelle era calda sotto la coperta. Decisi di provare se la mia intuizione era quella giusta.
“E allora è per il freddo” conclusi innocentemente.
Mi guardò nuovamente e mi allungò la mano sulla gamba. Era quasi bollente. “Ti sembra che abbia freddo?” mi chiese dolcemente, col volto rivolto verso di me la sua bocca vicinissima al mio collo.
Non spostò la mano e non avrei voluto che lo facesse mai.
Mi voltai e me lo trovai lì, a pochissimi millimetri. Si passò la lingua sulle labbra, inconsciamente imitai il verso. Lo prese come un invito e mi trovai le sue labbra sulle mie. La sua lingua mi chiese il permesso di entrare e io spalancai la bocca avidamente.
Allungai la mano verso la sua forte schiena e lo spinsi verso di me, sentii immediatamente l’altra sua mano che si appoggiava sul mio fianco opposto e risaliva verso le scapole percorrendo la mia colonna vertebrale. Le nostre lingue danzavano tra di loro e le mani scoprivano punti dei nostri corpi fino ad allora sconosciuti. I respiri erano febbrili e gemiti si levavano da entrambe le nostre gole. La tempesta che si era scatenata all’esterno stava ora entrando nelle nostre anime, le quali stavano richiamando l’attenzione l’una all’altra. Alzandomi dalla sedia lo portai verso di me, la coperta cadde ma nessuno ci fece caso. I corpi erano caldi e bastava il calore della nostra pelle avida. Senza mai staccare le labbra dalle sue, passai le mani sui suoi glutei e godetti di una rotondità tonica e muscolosa. Sentii le sue mani che percorrevano lo stesso cammino e i pollici entravano sotto l’elastico degli slip per abbassarli. Sganciò la mia erezione dall’argine dell’elastico e le mutande caddero sul pavimento.
Le sue mani sparirono per un istante, mi chiesi mentalmente dove fossero finite, ma lo scoprii ben presto, quando le sentii nuovamente sulle natiche che mi spingevano verso di lui, che era ora senza indumenti. Le nostre erezioni si strofinarono l’una sull’altra.
Godemmo l’uno dell’altro sotto quel temporale estivo, distesi sulla branda e avvolti nella coperta, con i tuoni e il fuoco che crepitava come unica colonna sonora. Non parlammo affatto, sorpresi della nostra passione che ci aveva travolti come quella tempesta sul pascolo della malga Pradèla.
Ci dimenticammo dei bracconieri, che ormai dovevano essere ritornati a valle con le loro prede. Quando finalmente la burrasca si placò, uscimmo sorridenti dal roccolo di avvistamento e avvisammo la centrale che la ricerca era stata annullata per le condizioni atmosferiche. Ritornammo alla macchina e rientrammo in paese.
Durante il viaggio ci lanciavamo sguardi sorridenti e sorrisi complici.
“Era tanto che volevo baciarti, capitano” mi confessò Carlo.
Mi sorpresi perché mi ritenevo una persona normale, un uomo piacente e piacevole ma per nulla eccezionale. Credo di essere arrossito per l’imbarazzo perché allungò la mano e mi accarezzò la guancia.
Quando arrivammo in centrale Teresa, la segretaria, ci guardò con aria afflitta: “Mi spiace non siate riusciti a prendere i bracconieri!”
“Sarà per un’altra volta!” le risposi "Ci ritenteremo domani."
Guardai Carlo sorridendo e gli feci l’occhiolino.
Carlo bussò alla porta del mio ufficio e, con un’aria sconcertata, mi comunicò che un informatore aveva sentito degli spari sopra la malga Pradèla, alle pendici di Cima Turchino. Il bosco era il rifugio di un branco di cervi. Imprecai silenziosamente e decisi immediatamente di salire con la jeep per verificare di persona.
Quando uscii dalla centrale della forestale, notai che il tempo stava volgendo al brutto e rientrai a prendere la cerata impermeabile: “Porca paletta, sta venendo giù un temporale coi fiocchi!” esclamai senza rivolgermi a nessuno in particolare.
“E’ meglio se ti accompagno Sandro.” si offrì Carlo.
“Prendi anche le chiavi del roccolo alto” gli suggerii “In caso il tempo giri al brutto, avremo un tetto sotto il quale ripararci”.
I temporali estivi in alta montagna possono essere molto pericolosi e il legno attira i fulmini, come l’usta della selvaggina, un branco di cani da caccia.
La segretaria che aveva assistito allo scambio di accordi, ci assicurò che sarebbe rimasta fino al nostro rientro. Controllai che le ricetrasmittenti avessero abbastanza carica, Carlo prese gli zaini e le armi e uscimmo nuovamente. Misi in moto la quattro per quattro mentre il mio collega caricava le cose, salì anche lui e partimmo.
Attraversai il paese al limite della velocità consentita, avrei avuto tutte le mie scusanti con Maria, la vigilessa del villaggio, ma non volevo perdere tempo in spiegazioni. Appena fuori paese ingranai la terza e m'inerpicai sulla strada che portava alla Forcola e quindi alla malga Pradèla.
Dubitai fortemente che i bracconieri si trovassero ancora nella zona ma si poteva sempre sperare nella buona sorte.
Raggiungemmo la malga e la superammo, risalendo ancora un po’ la strada sterrata che portava al bosco superiore fin dove la carrareccia ce lo consentiva. Le nuvole si stavano addensando minacciose, i tuoni si susseguivano a poca distanza l’uno dall’altro, tanto forti da coprire la voce gracchiante della radio nell’auto, l’elettricità causava disturbi alla ricezione e si sentivano fastidiose scariche statiche raccolte dall’antenna. Arrivammo all’ultima piazzola disponibile per il parcheggio, prendemmo il materiale e ci incamminammo sul sentiero che portava al bosco.
Mentre salivamo, cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia, che in pochi istanti divennero uno scroscio continuo. Era impossibile continuare e i fulmini erano pericolosi nel folto della boscaglia. Indicai a Carlo il roccolo di osservazione e facemmo una repentina svolta di 45 gradi ad est per dirigerci verso il rifugio. Nell’aria si sentiva l’odore dell’ozono creato dalla perturbazione atmosferica. Carlo prese le chiavi e aprì la porta della piccola baita, dove entrammo zuppi di pioggia. Quando chiudemmo l’uscio, il rumore della pioggia si attutì un poco, fortunatamente il tetto era di ardesia e gli infissi erano stati creati per permettere un isolamento anche durante il periodo invernale. Il posto era molto spartano: una grande stanza con un caminetto rustico, un tavolo, qualche sedia e un'ampia branda che poteva servire a una o due persone.
Presi la legna a disposizione e accesi un fuoco per scaldarci e cercare di asciugare le divise d'ordinanza.
Mi sfilai la camicia di spesso cotone e la appesi allo schienale della sedia rivolgendola verso il focherello che già crepitava allegramente. Carlo fece altrettanto. Entrambi ci togliemmo anche il resto dei vestiti che erano completamente zuppi e rimanemmo in mutande davanti al camino.
Non mi era mai capitato di vedere il mio ufficiale in abiti così succinti. Sebbene più basso di me di una decina scarsa di centimetri, il suo corpo era molto robusto. Le spalle disegnavano una linea morbida sui muscoli trapezi ben modellati. Gli addominali e i pettorali erano ben evidenti. Le gambe erano corte ma proporzionate e con muscoli poderosi costruiti dalle lunghe camminate in montagna. La sua pelle era tutta coperta da una leggera peluria bionda che aumentava l’effetto dorato della cute. Aveva la pelle d’oca per il freddo e i capezzoli turgidi sporgevano come piccole vette alpine. Trattenni un gemito di desiderio e stornai lo sguardo verso l’esterno.
“Che c’è capitano?” mi chiese con un sussurro.
“Nulla” risposi cercando di non guardarlo “chissà quando smetterà di piovere e potremo uscire da questo rifugio?”
“Hai fretta di tornare a valle?” un altro sussurro appena percettibile sopra lo scroscio dell’acqua torrenziale.
Mi sarei fermato in questo istante per il resto della settimana. Due uomini quasi completamente nudi, seduti davanti ad un fuoco in una piccola baita di legno, in alta montagna.
Ci fu un attimo di silenzio tra di noi, la pioggia riempiva le parole non espresse a voce.
Mi alzai e presi una coperta dal piccolo armadio a muro.
“Tieni, prendi questa. Hai la pelle d’oca” gliela allungai guardandolo negli occhi. Erano di un azzurro intenso, non me n’ero mai accorto.
Carlo la aprì e se la mise sulle spalle, poi avvicinò la sedia alla mia e ne alzò un lembo verso di me: “Vieni, ce n’è abbastanza per tutti e due”.
Mi sedetti su quel piccolo divanetto improvvisato e mi coprii. Il calore della coperta era confortevole. I nostri corpi si sfioravano appena ma sentivo il contatto bruciare, come se fosse la fiamma del camino.
La pioggia non cessava e i tuoni rimbombavano tutto attorno a noi. Ci eravamo inconsciamente avvicinati l’uno all’altro, la nostra pelle era ora in completo contatto, dalla spalla fino alla coscia. Lo sentii tremare.
“Hai paura dei tuoni?” chiesi con uno sguardo divertito.
Si voltò verso di me quasi scandalizzato: “Assolutamente no”.
I nostri volti erano a pochi centimetri di distanza.
“Ti ho sentito tremare” gli dissi quasi scusandomi.
“Non per la paura” mi spiegò.
Silenzio e scrosci, lampi e tuoni ravvicinati.
Non capivo il motivo del tremore. Se non era paura, era freddo, ma la sua pelle era calda sotto la coperta. Decisi di provare se la mia intuizione era quella giusta.
“E allora è per il freddo” conclusi innocentemente.
Mi guardò nuovamente e mi allungò la mano sulla gamba. Era quasi bollente. “Ti sembra che abbia freddo?” mi chiese dolcemente, col volto rivolto verso di me la sua bocca vicinissima al mio collo.
Non spostò la mano e non avrei voluto che lo facesse mai.
Mi voltai e me lo trovai lì, a pochissimi millimetri. Si passò la lingua sulle labbra, inconsciamente imitai il verso. Lo prese come un invito e mi trovai le sue labbra sulle mie. La sua lingua mi chiese il permesso di entrare e io spalancai la bocca avidamente.
Allungai la mano verso la sua forte schiena e lo spinsi verso di me, sentii immediatamente l’altra sua mano che si appoggiava sul mio fianco opposto e risaliva verso le scapole percorrendo la mia colonna vertebrale. Le nostre lingue danzavano tra di loro e le mani scoprivano punti dei nostri corpi fino ad allora sconosciuti. I respiri erano febbrili e gemiti si levavano da entrambe le nostre gole. La tempesta che si era scatenata all’esterno stava ora entrando nelle nostre anime, le quali stavano richiamando l’attenzione l’una all’altra. Alzandomi dalla sedia lo portai verso di me, la coperta cadde ma nessuno ci fece caso. I corpi erano caldi e bastava il calore della nostra pelle avida. Senza mai staccare le labbra dalle sue, passai le mani sui suoi glutei e godetti di una rotondità tonica e muscolosa. Sentii le sue mani che percorrevano lo stesso cammino e i pollici entravano sotto l’elastico degli slip per abbassarli. Sganciò la mia erezione dall’argine dell’elastico e le mutande caddero sul pavimento.
Le sue mani sparirono per un istante, mi chiesi mentalmente dove fossero finite, ma lo scoprii ben presto, quando le sentii nuovamente sulle natiche che mi spingevano verso di lui, che era ora senza indumenti. Le nostre erezioni si strofinarono l’una sull’altra.
Godemmo l’uno dell’altro sotto quel temporale estivo, distesi sulla branda e avvolti nella coperta, con i tuoni e il fuoco che crepitava come unica colonna sonora. Non parlammo affatto, sorpresi della nostra passione che ci aveva travolti come quella tempesta sul pascolo della malga Pradèla.
Ci dimenticammo dei bracconieri, che ormai dovevano essere ritornati a valle con le loro prede. Quando finalmente la burrasca si placò, uscimmo sorridenti dal roccolo di avvistamento e avvisammo la centrale che la ricerca era stata annullata per le condizioni atmosferiche. Ritornammo alla macchina e rientrammo in paese.
Durante il viaggio ci lanciavamo sguardi sorridenti e sorrisi complici.
“Era tanto che volevo baciarti, capitano” mi confessò Carlo.
Mi sorpresi perché mi ritenevo una persona normale, un uomo piacente e piacevole ma per nulla eccezionale. Credo di essere arrossito per l’imbarazzo perché allungò la mano e mi accarezzò la guancia.
Quando arrivammo in centrale Teresa, la segretaria, ci guardò con aria afflitta: “Mi spiace non siate riusciti a prendere i bracconieri!”
“Sarà per un’altra volta!” le risposi "Ci ritenteremo domani."
Guardai Carlo sorridendo e gli feci l’occhiolino.
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