Pur avendo passato da un po’ (un pochino…? Vabbe’… da un bel po’), la quarantina, era la prima volta che partecipavo a un Gay Pride. Non mi piace la folla e le urla concitate ed esasperate della gente non fanno altro che infastidirmi.
Ero stato spinto a venire dal mio amico Luca, che abitava in quella città e che avrebbe partecipato con il suo compagno Lorenzo.
“Dai vieni, Andrea…” mi aveva supplicato “ti divertirai e magari troverai finalmente un fidanzato!”
Seeeee, come no!
Ormai ci avevo rinunciato. Avevo avuto parecchie storie in passato ma, come spesso ripetono le donne, tutti gli uomini ragionano con le palle, non con il cervello.
Erano più di due anni che non frequentavo nessuno. La mia vita amorosa si era dissolta come il fumo di un camino in una giornata di vento. Ironia della sorte, le mie colleghe in ospedale, anche quelle sposate, continuavano a lanciarmi messaggi sessuali.
No, grazie. Non tratto questo genere di merce.
Devo ammettere che non sono poi da buttar via, 47 anni ma con un fisico giovanile, cerco di tenermi in allenamento e non ho un filo di pancia. I pettorali e i bicipiti sono tonici, anche se non eccezionali, e, grazie alla vena genetica materna, ho due profondi occhi celesti che conferiscono al mio volto un perenne sorriso gioviale.
Il caldo era quasi insopportabile.
Decisi di togliermi la T-shirt. Del resto, più della metà della gente girava a torso nudo e non si sarebbero certo accorti di me. Sfilai la maglia e la infilai nei pantaloni.
Ka-bum!
Un ragazzino che avrà avuto, sì e no, due giorni dopo la maggiore età mi schiacciò l’occhiolino: “Ehi bello! Niente male per la tua età”.
Arricciò le labbra in un bacio civettuolo e me lo lanciò, soffiando sul palmo della mano.
Fanculo, pensai, non sono poi così vecchio. Però gli sorrisi lo stesso, d’altra parte voleva essere un complimento. Il suo… ragazzo?… amico?... compagno di banco?... a fianco, sollevò un paio di volte le sopracciglia a gabbiano ed entrambi volarono via tra la folla vociante.
Cominciavo già a pensare di aver fatto una cazzata e di ritornare al parcheggio, per riprendere la macchina e tornarmene a casa, farmi una doccia e distendermi sul balcone in pantaloncini corti. Cercai Luca e Lorenzo tra la folla ma non li vedevo da nessuna parte; dove si erano ficcati quei due? Mi sarebbe scocciato tornare a casa senza salutarli. Presi il cellulare e chiamai il numero di Luca. Non rispose e partì la segreteria telefonica. Ripetei l’operazione con quello di Lorenzo, ma anche quello si comportò nello stesso modo di quello del suo compagno. Cominciai a innervosirmi. E’ vero, pensai, loro sono venuti con la loro auto, io potrei andarmene, ma che amico sarei?
Sete. Avevo sete. Avevo bisogno di una bottiglia di acqua frizzante o di una bibita fresca.
La gente sgomitava da tutte le parti. Passarono delle drag queen con i loro sgargianti costumi e i volti stravolti dal trucco pesante. I cosmetici chiassosi cominciavano a sbavare per il caldo e il sudore. La bionda platinata superandomi mi toccò il culo.
Eccheddiamine!
Una bandiera arcobaleno mi arrivò in faccia e quasi mi accecò un occhio. La spinsi via infastidito. Mentre mi fregavo l’occhio colpito, sbattei contro un gay-bear grande e grosso, aveva una canottiera gonfiata dai muscolosi pettorali coperti di un fitto pelo. Mi lanciò un’occhiata arrabbiata… poi sorpresa… poi decisamente interessata. Mi scusai e si allontanò sostenendo il mio sguardo, la sua pancia prominente fendeva la folla come la prua di una nave. Torreggiava sulle teste degli altri, di un buon paio di spanne.
Un gruppo di ragazzi poco lontano stava simulando uno strip tease, il più grande di tutti poteva avere trent’anni. Lo facevano a favore di una coppia di ragazzi travestiti: uno da prete, l’altro da suora. Probabilmente il gruppo delle sciampiste del quadrilatero della moda. Mi sentivo fuori posto.
Più avanti, una donna intervistava il gruppo delle famiglie arcobaleno. Una mamma orgogliosa, col figlio in carrozzina, stava parlando al microfono. Al suo braccio era aggrappata la sua compagna, che la guardava sorridente in adorazione, come se fosse la Vergine Maria. Gesù Bambino nella carrozzina dormiva beato. Rosso all’inverosimile e con i capelli umidi per il sudore. Come faceva a dormire in quella bolgia urlante, rimaneva un mistero. Forse era morto dal caldo. Ero quasi tentato di andare a controllare: “Sono un dottore, sono un dottore!” avrei urlato, cercando di sovrastare le grida della folla.
Risi di me stesso e cercai nuovamente Luca e Lorenzo.
Niente.
Decisamente ci eravamo persi.
Finalmente vidi l’insegna di un bar e cercai di avvicinarmi. All’esterno avevano allestito un bancone improvvisato fatto di assi. Sul muro dietro di esso campeggiava un’enorme bandiera arcobaleno. La ressa era indescrivibile. Tutti i baristi erano affaccendati. Stavo per avvicinarmi al bancone, quando la ragazza prima di me ricevette una sgridata dall’addetta alla distribuzione: “Ab-bella, prima fai lo scontrino!” le disse questa sgarbatamente, indicandogli un cartellone alle sue spalle. In lettere capitali c’era un avviso che invitava a pagare prima della consumazione e sotto, a grandi lettere, “CASSA”, con una freccia che indicava il punto dove potersi recare.
Spintonai verso il punto indicato. Mentre facevo la fila per il biglietto, incrociai lo sguardo con un barista. Fu un’occhiata fugace all’inizio, ma poi il suo sguardo ritornò immediatamente al mio volto e, dopo avermi messo a fuoco, mi sorrise. Era decisamente una persona molto interessante, circa la mia età, barba brizzolata, capelli corti, sorriso semplice ma magnetico. Era a torso nudo, i pettorali e l’addome erano un invito cui difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a resistere. Una soffice e scura peluria copriva quel ben di dio e spariva sotto la cintura dei pantaloni indicando il cammino per il tesoro. I jeans neri evidenziavano il pacco e le rotondità dei glutei.
Mi leccai istintivamente le labbra. Diedi colpa al caldo.
Si appoggiò con un braccio alla torre di lattine delle bibite e sostenne il mio sguardo continuando a sorridermi. Credo di essere diventato rosso come un peperone perché lui rise divertito scuotendo la testa, ritornando subito agli avventori del bar che reclamavano la sua presenza. Pagai per una bottiglia di acqua frizzante e ritornai verso il bancone.
Mi avvicinai al barista figone, aspettai il mio turno. L’uomo era troppo indaffarato per notare la mia presenza mentre si agitava frenetico avanti e indietro, senza guardare in faccia la clientela. Quando finalmente fui di fronte a lui, dissi solamente un “ciao”.
Alzò gli occhi e riconoscendomi mi sorrise.
“Ciao a te”.
I suoi occhi entrarono letteralmente dentro di me, o forse fui io che affondai in essi.
Improvvisamente il rumore, la ressa, le risate, le urla, gli schiamazzi, cessarono. Eravamo solo noi due, sulla cima dell’Everest a ottomila metri di distanza da tutto il resto dell’umanità. Io e lui, il silenzio e ogni altra sensazione erano impalpabili. Non sentivo nulla.
Dei cinque sensi funzionava solo la vista.
L’udito, il tatto, l’olfatto e il sapore erano annullati, distrutti, svaniti nel nulla.
Non ho idea di quanto tempo passò, eravamo completamente immersi l’uno nell’altro, come se, dopo un cammino umano durato tutta la nostra vita, finalmente ci fossimo trovati.
Anime destinate a essere una cosa sola, fin dall’inizio della creazione.
Il Big Bang, in quell’istante primordiale di mille milioni di anni prima, aveva già stabilito che io e lui eravamo fatti l’uno per l’altro. Era già deciso che ci saremmo incontrati in quell’afoso pomeriggio al Gay Pride e che non ci saremmo lasciati per tutto il resto della nostra esistenza.
Non ho mai creduto nell’amore a prima vista.
Che cretino.
“Che ne dici di una birra?” mi chiese sorridendo.
Lo guardai e misi a fuoco la domanda.
“Che ne dici se ti bacio?” gli domandai.
Sentii la voce di mia madre che mi redarguiva nella testa: “A una domanda, non si risponde con un’altra domanda”. La accantonai come inutile.
Vidi il suo volto avvicinarsi al mio, le grandi braccia appoggiate al bancone del bar per sostenersi, mentre si allungava verso me. Posai le mie labbra sulle sue e sentii come una molla che scattava dentro di me, un meccanismo che si andava a incastrare in un altro combaciandovi perfettamente. Le nostre lingue si incontrarono e danzarono l’una con l’altra, nel primo incontro che veniva loro offerto.
Una ragazza accanto a noi applaudì entusiasta: “Che carini!!!”
Ci sorridemmo l’un l’altro, staccando le nostre labbra con difficoltà.
“Ti ho cercato così tanto!” dissi.
“Ti ho aspettato a lungo!” mi disse, quasi contemporaneamente.
Sentivo che in quel momento preciso, in quel minuto, in quell’ora, in quel giorno, in quel posto, si era decisa la nostra storia insieme e che sarebbe durata per sempre. Dentro di me avevo compreso che sarebbe stato così. Che sarebbe andata così. Che doveva per forza essere così. Non potevamo farci nulla. Il destino aveva già deciso per noi.
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