La serva entrò nella stanza e spense la luce della lanterna ad olio. Fuori cominciava ad albeggiare. Si avvicinò all’uomo addormentato sulla sedia accanto al letto e gli posò la mano sulla spalla: “Mio signore, svegliatevi, è già l’alba”.
L’uomo aprì lentamente gli occhi, appesantiti dal sonno, mettendo a fuoco il volto dell’anziana donna che gli sorrideva affettuosamente.
“Avete dormito ancora sulla sedia, padrone. E’ già una settimana che non riposate nel vostro letto. Vi ammalerete anche voi!”
“Rachel, come potrei dormire lontano dal suo giaciglio?” le domandò indicando la figura distesa nel letto, “potrebbe aver bisogno di me durante la notte”.
“Yehoyakin ormai è in queste condizioni da settimane, padrone. Dobbiamo rassegnarci alla sua malattia” ribatté scuotendo il capo tristemente.
Gli occhi del centurione si velarono di lacrime. Ormai piangeva di continuo, non mangiava quasi più nulla e la notte rimaneva al capezzale del suo amato che stava spegnendosi pian piano. Rachel era profondamente affezionata al suo padrone. Pur essendo un soldato romano, era un uomo buono. La maggior parte dei soldati invasori erano feccia, si comportavano in maniera violenta con loro, avevano ridotto in povertà tutto il popolo ebreo, esigevano tributi, razziavano i campi, depredavano il loro bestiame e violentavano le loro donne. Cornelio no, era un uomo buono e gentile. Per loro aveva fatto costruire persino una sinanoga, più ampia di quella che avevano prima. Pur essendo a capo di una guarnigione numerosa e persona importante agli occhi del governatore Pilato, nonché dotato di ricchezza perché figlio di una famiglia patrizia latina, egli si comportava gentilmente con la sua servitù e non aveva mai alzato le mani su di loro. Provvedeva a nutrirli e ai loro bisogni. Era bello vivere nella sua casa, era come se fossero una famiglia e Rachel si era affezionata a lui come se fosse suo figlio, quello che purtroppo non aveva mai avuto. Yehoyakin era ebreo, figlio della sorella di Rachel, che era morta l’anno prima. Il servo era di qualche anno più giovane di Cornelio. Di lui il centurione si fidava come di se stesso e sapeva che l’uomo gli era profondamente riconoscente. Il loro rapporto si era andato approfondendo sempre più: prima li legava una profonda amicizia, poi una mutuale devozione ed infine tra loro era sbocciato anche l’amore. Ora Yehoyakin era un “Pais”, che in ebraico ha il significato di amante di un uomo socialmente più elevato. Ma il nipote stava morendo e la donna pregava che la morte venisse presto a liberarlo della sua infermità. Stava soffrendo e faceva anche soffrire Cornelio. Rachel sapeva che presto si sarebbe ammalato anche lui se avesse continuato a trascurarsi a quel modo. La donna aprì la tenda per fare entrare un po’ di sole nella stanza, poi raccolse le cose che il padrone aveva abbandonato sul tavolo e si diresse in cucina. La cuoca, che era già al lavoro, si voltò verso di lei mentre stava tagliando delle zucchine: “Come sta?” chiese ansiosa.
“Come sempre, Miriam. Si sta spegnendo sempre più e Cornelio non lo lascia solo per un attimo. Si sta distruggendo anche lui” rispose passandosi una mano sul viso in un gesto di disperazione.
“Che situazione penosa” sospirò la cuoca. “Sai, mi hanno detto che quell’uomo di Nazareth, quello che dicono sia un profeta, sta arrivando qui in città”.
“Qui a Kefarnahum? E che ci viene a fare in questo posto sperduto?” domandò Rachel.
La cuoca non aveva una risposta e ignorò la domanda: “Dicono che faccia miracoli! Ha cambiato l’acqua in vino a Canaan, e ha guarito un cieco a Betsaida ed uno zoppo a Corazìn. Dicono che sia un guaritore”.
Rachel si animò immediatamente, poteva essere l’occasione giusta per poter guarire Yehoyakin: “Ti hanno detto dove è diretto?”.
“No, ma posso mandare Samuél a vedere se riesce a scoprirlo” propose Miriam.
“Andrà certamente alla sinagoga. Manda Samuél ad avvisare il rabbino, che lo faccia venire qui a casa del Centurione, è tempo che Eliah ripaghi il nostro signore per avergli donato il nuovo tempio”.
Rachel corse ad avvisare il padrone e la casa si trasformò immediatamente in un via vai di gente, furono pulite tutte le stanze e venne rigovernato il patio centrale, furono spolverati i mobili e lucidati i bronzi e gli ottoni degli ornamenti. Il centurione vestì la sua alta uniforme anche se non gli calzava più a pennello. Fu preparato il pane azzimo e la frutta più fresca, venne attinta l’acqua fresca al pozzo e preparato il vino migliore. Non avevano ancora finito di riordinare tutto che Samuél entrò a perdifiato dal portone: “Sta arrivando, sta arrivando!”.
Cornelio corse al portone per ricevere l’ospite, la servitù si mise appena dietro di lui in posizione schierata. Tutti speravano che Jeshùa fosse veramente un guaritore e non un cialtrone come tanti altri che percorrevano in lungo e in largo la Palestina.
Dopo un po’ di attesa snervante, dal fondo della strada finalmente arrivò un drappello di gente. Davanti c’era la scorta romana che Cornelio aveva inviato. Quando furono davanti al loro capitano, lo salutarono con il braccio destro alzato e si scostarono a lato.
Il rabbino Eliah si avvicinò a Cornelio e lo abbracciò affettuosamente, anche lui voleva bene al romano, non solo gli aveva donato una nuova sinagoga, ma era anche un uomo corretto e degno di rispetto: “Amatissimo figlio, ti reco in visita il rabbino Jeshùa di Nazareth come hai richiesto”.
Eliah si voltò e un uomo, tra quelli del gruppo, fece qualche passo verso il centurione. I suoi occhi si posarono in quelli di Cornelio e il romano fu come se vedesse il sole per la prima volta. Lo sguardo di Jeshùa sembrava leggergli nel cuore, si sentì letteralmente invaso dalla presenza di quell’uomo. La grandezza e la maestà del Nazareno erano palpabili, il soldato capì di essere una nullità nei suoi confronti. Eliah lo presentò dicendo: “Rabbunì, costui è Cornelio, centurione romano giusto e magnanimo. Egli ama la nostra nazione ed è lui che ha fatto costruire la nostra sinagoga”.
Jeshùa abbassò lievemente il capo in un cenno di saluto, poi gli sorrise.
Facendosi coraggio Cornelio si inchinò al profeta e disse: “Signore, non son degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio amatissimo Pais sarà salvato. Io sento che sei un uomo di potere. Anche io sono un uomo sottoposto all’autorità di altri e sotto di me ho dei soldati. Quando dico a uno ‘vai’, egli va, o ad un altro ‘vieni’, egli viene. Quando dico al mio servo ‘fa questo’ egli lo fa. Per cui ti imploro, rabbunì, salvalo”. Poi quell’uomo grande e grosso ma anche piccolo e insignificante, scoppiò in lacrime, inchinato di fronte a chi era più grande di lui.
Nessuno fiatava. Il silenzio aveva il dominio della scena.
Jeshùa era meravigliato dalle parole del soldato romano, finalmente dopo quello che sembrava un secolo si rivolse alla folla intorno a loro e disse: “Io vi dico che non ho mai trovato una fede così grande in nessun abitante d’Israele!” Poi si rivolse a Cornelio e gli sorrise nuovamente: “Ecco, sia fatto come hai creduto”.
Il Nazareno alzò il braccio indicando la porta della casa di Cornelio e tutti videro uscire Yehoyakin, ancora un po’ vacillante sulle gambe ma con un sorriso radioso. Il romano corse incontro al suo amatissimo uomo che era stato salvato da Jeshùa, figlio di Dio. Il Messia non li aveva condannati per il loro rapporto omoaffettivo, non era scappato scandalizzato, non li aveva maledetti o maltrattati, nè derisi e sbeffeggiati. Li aveva benedetti per la loro grande fede e per il loro amore. Cornelio e Yehoyakin si abbracciarono felici e si volsero verso il Salvatore.
L'uomo aveva già voltato loro le spalle ed aveva ripreso il suo cammino.