Riflessioni di Ale e Edu pubblicate su Huffingtonpost.it il 28 aprile 2015
Qualche giorno fa, sono andato a trovare i miei genitori. Dopo il pensionamento di mio padre, si sono trasferiti fuori Roma, nei pressi di Cerveteri, invecchiando hanno optato per uno stile di vita più sano, una casa con un giardino, un piccolo orto, galline ovaiole e due cani. La scelta radicale, con gli anni si è rivelata vincente, oggi sono una bella coppia di ottantenni, sobri e rilassati.
Erano passati diversi mesi dall’ultima volta che avevamo pranzato insieme solo noi tre. A tavola tra un piatto di spaghetti e una frittata, mi riassumevano le vicissitudini di parenti e amici di famiglia, poi mia madre si alza per preparare il caffè e con tono preoccupato mi dice: “Hai letto di quel ragazzino gay di quattordici anni che si è suicidato?”. “Sì, mamma, ho letto”. Avvita la moka, la mette sul fuoco e continua: “A volte ci penso, penso al mondo triste che stiamo lasciando noi vecchi, i giovani non imparano mai dagli errori e dalle mancanze degli adulti; se un giovane si toglie la vita è perché prima è stato escluso e non è stato messo in condizione di esprimersi liberamente“.
Mio padre prende la parola: “Noi, che tu eri omosessuale, lo avevamo capito fin da quando eri piccolo; eravamo preoccupati, non avevamo gli strumenti per affrontare questa cosa e ci illudevamo che non fosse vero, fino a voler credere che le nostre certezze fossero solo sensazioni sbagliate. Questo succedeva però più di trent’anni fa e sapere che in Italia esistono ancora genitori che non sono in grado di comprendere e rassicurare i loro figli gay mi dispiace!”. Mia madre versa il caffè nelle tazzine, le poggia sul tavolo, si siede e, mentre mette lo zucchero, dice: “Questa notizia mi ha fatto venire in mente un fatto che mi capitò quando avevo io quattordici anni. Mentre tornavo a casa notai che un ragazzino magrolino veniva spintonato e preso in giro da un gruppetto di coetanei”. “Brutto gay, pensi di essere una femmina? Fai schifo, sei malato!”. Lui piangeva e li supplicava di smettere, ma loro continuavano: “Gay! Sporco gay!”.
Mi sono avvicinata, avevo paura e mi sudavano le mani, ma ho iniziato comunque a urlagli contro: “Vergognatevi! Lasciatelo perdere, voi siete in tanti e lui è solo, andate via!”. Lo dissi a brutto muso e loro, dopo avermi detto qualche parolaccia, se ne andarono. Il ragazzino con gli occhi pieni di lacrime mi guardò per pochi istanti e poi corse via”. Finisco di bere il caffè e la guardo intenerito, mia madre, giovane eroina dei più deboli. Però c’è una cosa che non mi quadra in questo racconto e glielo dico sorridendo: “Mamma, mi risulta difficile pensare che in una borgata romana degli anni ’40 usassero la parola gay!”. “È vero, gli gridavano ‘frocio’, ma è una parola brutta, nata per offendere; è una parola che mi imbarazza, anche solo nel dirla, specialmente davanti a te che sei mio figlio e che ti amo tanto”.
Tornando a casa, venne in mente anche a me un aneddoto che dopo le parole di mio padre, rilessi in maniera più chiara. Avevo anche io quattordici anni, frequentavo il primo anno dell’istituto d’arte ed ero affascinato dal movimento punk. Come molti ragazzini sperimentavo un’identità sociale possibile, portando i capelli con una piccola cresta rossa. Un giorno mio zio rivolgendosi a mio padre, con me presente, disse “Ma tuo figlio si tinge i capelli? Sarà mica un frocio?!”. Quelle parole mi arrivarono come una bastonata in faccia: ero stato scoperto, non sapevo come reagire, mio padre guardandomi fisso negli occhi, gli rispose in modo asciutto e duro: “Mio figlio è solo un ragazzo e può fare quello che vuole!”. Poi, girando lo sguardo verso mio zio, aggiunse: “Non mi piace che usi questi termini davanti a lui”.
Durante l’adolescenza, mi è capitato più volte di essere preso in giro, umiliato e di sentirmi profondamente oppresso. Ma quella fiducia che mio padre mi aveva accordato nel “poter fare quello che volevo” e quella comprensione nel suo sguardo sono stati per me un solido appiglio. Un appiglio che mi ha aiutato a rafforzami e mettermi alla prova; un appiglio che ha contribuito ad evitare che, nei momenti di sconforto e smarrimento, decidessi di farla finita.
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