Articolo di Andrea Fantucchio pubblicato sul sito orticalab.it il 5 dicembre 2014
«Sono omosessuale, ma un giorno vorrei poter officiare la messa»: Mario, nome di fantasia, è un ragazzo di provincia. Quella provincia sovente rinchiusa in una mentalità consolidata nei secoli che si manifesta in ogni tradizione, comportamento e schema di pensiero.
Mentalità che, se trasgredita, sfocia spesso in episodi d’intolleranza. E’ il caso di questa storia, il cui incipit cozza inevitabilmente con gli schemi consolidati ai quali ci riferivamo.
«Sono omosessuale, ma un giorno vorrei poter officiare la messa»: Mario, nome di fantasia, è un ragazzo di provincia. Quella provincia sovente rinchiusa in una mentalità consolidata nei secoli che si manifesta in ogni tradizione, comportamento e schema di pensiero.
Mentalità che, se trasgredita, sfocia spesso in episodi d’intolleranza. E’ il caso di questa storia, il cui incipit cozza inevitabilmente con gli schemi consolidati ai quali ci riferivamo.
Mario ci ha provato a rispettare questi schemi, poi, quando la situazione è diventata insostenibile, è andato via cercando conforto in quella che sentiva essere la sua vocazione: «Dio ci ha fatto a sua immagine e somiglianza.
Tutti, anche noi omosessuali, non ha mai parlato di uomini più uomini di altri. Io ho rinunciato ai rapporti carnali per abbracciare al meglio il sacerdozio, eppure, non è bastato».
Entrato in seminario due anni fa, quando aveva da tempo smesso col sesso, si sentiva egualmente in colpa nei confronti di quell’istituzione che lo stava accogliendo. Così, decise di raccontare al direttore spirituale la sua storia: «Il padre mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno, mi ha promesso sostegno e poi, invece, mi ha allontanato.
Continuava ad evitarmi nei corridoi, finché mi fecero capire che non ero il ben accetto. Le occhiate degli altri seminaristi, i silenzi a tavola, fino alle richieste dei miei compagni di stanza di non dormire più con me.
Così si uccide davvero un essere umano: col pregiudizio velato da tacita omertà».
La sua è una storia pregna di silenzi e ipocrisia, la stessa ipocrisia che continua a far da cornice a questioni come l’omosessualità, soprattutto in contesti piccoli come quelli di provincia: «Sono stato legato sentimentalmente ad un mio compagno di classe per quattro anni, anche se non ufficialmente.
Spesso, in classe, lui mi dava gli schiaffi o mi torturava in mille modi e poi, in pullman, diventava un agnellino. Finché un pomeriggio, tornando a casa, ci allontanammo dalla strada principale.
Lì, sulla collina, mi raccontò del rapporto difficile che aveva coi suoi genitori. Questa storia si ripetette per giorni: la mattina a scuola le sue sevizie, poi quando eravamo soli diventavo il suo sostegno. Un pomeriggio, mi baciò sulla bocca ed io risposi al bacio».
Dopo quel bacio la situazione fra i due ragazzi rimase la stessa. L’amico di Mario, infatti, non aveva alcuna intenzione di palesare pubblicamente i suoi sentimenti e così la storia andò avanti fra baci rubati e apparenze salvate.
L’altro giovane si fidanzò con delle ragazze più di una volta e lo stesso Mario, quando era in comitiva, si omologava alla legge di gruppo: «Non sono state rare le volte che ho dato del ricchione o del frocio a dei ragazzi solo per non scontentare i miei amici. So che è una cosa meschina, ma in quel momento la mia sola esigenza era nascondere al meglio ciò che ero».
Crescendo, nascondersi è diventato sempre più difficile: «La cosa peggiore era rinnegare se stessi. Così, un giorno, ho smesso: non ridevo più se gli altri facevano dell’ironia sui gay e il mio atteggiamento è mutato fin quando baciai pubblicamente un ragazzo.
Lo stesso pomeriggio trovai mio padre sulla porta e tutti i panni buttati in strada. Né una parola, né uno schiaffo, lo sguardo era quello di un uomo che aveva perso suo figlio per sempre. Mia zia mi accolse e lì rimasi due mesi, fino a quando le preghiere di mia madre riuscirono a convincere il babbo a riaccettarmi in casa».
Ormai, però, il paese era diventato una prigione: «Fu in quel periodo che iniziai a leggere la Bibbia e Sant’Agostino provando un conforto che nessun essere umano era mai riuscito a darmi. Dopo un anno di università, lasciai la facoltà di giurisprudenza per entrare in seminario.
Stavolta mio padre fu d’accordo e ci tenne a farmelo sapere. Lo ricordo come fosse ieri: credeva che il mio fosse un peccato da espiare e che la scelta monastica mi avrebbe aiutato nel percorso di redenzione».
L’incontro col seminario si è rivelato invece l’ennesima battaglia da combattere: «Credo che nella Chiesa ci sia molta ipocrisia. Senza voler fare discorsi sui quali si è già strumentalizzato abbastanza, penso che ogni castrazione dell’amore sia contraria ai principi cristiani.
“Chi non è colpevole scagli la prima pietra", Gesù salvò la Maddalena dalla lapidazione. Noi subiamo una lapidazione quando veniamo indicati come il male da debellare. Ci uccidono ogni volta che ci trattano come esseri umani di seconda classe».
Tutti, anche noi omosessuali, non ha mai parlato di uomini più uomini di altri. Io ho rinunciato ai rapporti carnali per abbracciare al meglio il sacerdozio, eppure, non è bastato».
Entrato in seminario due anni fa, quando aveva da tempo smesso col sesso, si sentiva egualmente in colpa nei confronti di quell’istituzione che lo stava accogliendo. Così, decise di raccontare al direttore spirituale la sua storia: «Il padre mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno, mi ha promesso sostegno e poi, invece, mi ha allontanato.
Continuava ad evitarmi nei corridoi, finché mi fecero capire che non ero il ben accetto. Le occhiate degli altri seminaristi, i silenzi a tavola, fino alle richieste dei miei compagni di stanza di non dormire più con me.
Così si uccide davvero un essere umano: col pregiudizio velato da tacita omertà».
La sua è una storia pregna di silenzi e ipocrisia, la stessa ipocrisia che continua a far da cornice a questioni come l’omosessualità, soprattutto in contesti piccoli come quelli di provincia: «Sono stato legato sentimentalmente ad un mio compagno di classe per quattro anni, anche se non ufficialmente.
Spesso, in classe, lui mi dava gli schiaffi o mi torturava in mille modi e poi, in pullman, diventava un agnellino. Finché un pomeriggio, tornando a casa, ci allontanammo dalla strada principale.
Lì, sulla collina, mi raccontò del rapporto difficile che aveva coi suoi genitori. Questa storia si ripetette per giorni: la mattina a scuola le sue sevizie, poi quando eravamo soli diventavo il suo sostegno. Un pomeriggio, mi baciò sulla bocca ed io risposi al bacio».
Dopo quel bacio la situazione fra i due ragazzi rimase la stessa. L’amico di Mario, infatti, non aveva alcuna intenzione di palesare pubblicamente i suoi sentimenti e così la storia andò avanti fra baci rubati e apparenze salvate.
L’altro giovane si fidanzò con delle ragazze più di una volta e lo stesso Mario, quando era in comitiva, si omologava alla legge di gruppo: «Non sono state rare le volte che ho dato del ricchione o del frocio a dei ragazzi solo per non scontentare i miei amici. So che è una cosa meschina, ma in quel momento la mia sola esigenza era nascondere al meglio ciò che ero».
Crescendo, nascondersi è diventato sempre più difficile: «La cosa peggiore era rinnegare se stessi. Così, un giorno, ho smesso: non ridevo più se gli altri facevano dell’ironia sui gay e il mio atteggiamento è mutato fin quando baciai pubblicamente un ragazzo.
Lo stesso pomeriggio trovai mio padre sulla porta e tutti i panni buttati in strada. Né una parola, né uno schiaffo, lo sguardo era quello di un uomo che aveva perso suo figlio per sempre. Mia zia mi accolse e lì rimasi due mesi, fino a quando le preghiere di mia madre riuscirono a convincere il babbo a riaccettarmi in casa».
Ormai, però, il paese era diventato una prigione: «Fu in quel periodo che iniziai a leggere la Bibbia e Sant’Agostino provando un conforto che nessun essere umano era mai riuscito a darmi. Dopo un anno di università, lasciai la facoltà di giurisprudenza per entrare in seminario.
Stavolta mio padre fu d’accordo e ci tenne a farmelo sapere. Lo ricordo come fosse ieri: credeva che il mio fosse un peccato da espiare e che la scelta monastica mi avrebbe aiutato nel percorso di redenzione».
L’incontro col seminario si è rivelato invece l’ennesima battaglia da combattere: «Credo che nella Chiesa ci sia molta ipocrisia. Senza voler fare discorsi sui quali si è già strumentalizzato abbastanza, penso che ogni castrazione dell’amore sia contraria ai principi cristiani.
“Chi non è colpevole scagli la prima pietra", Gesù salvò la Maddalena dalla lapidazione. Noi subiamo una lapidazione quando veniamo indicati come il male da debellare. Ci uccidono ogni volta che ci trattano come esseri umani di seconda classe».
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