mercoledì 25 settembre 2013

RISORGIMENTO ITALIANO



Il periodo militare per molti è una fase della propria vita nella quale si vive alla giornata, con la certezza però di un pasto caldo due volte al giorno. La situazione politica nazionale quell’anno era difficile, più della metà della popolazione non aveva lavoro, e coloro che erano fortunati a guadagnare per la propria famiglia uno stipendio, anche minimo, non avevano la certezza di mantenerlo per molto. La precarietà dell’occupazione era nelle mani di pochi spregiudicati che non guardavano in faccia a nessuno.

Questi motivi, furono quelli che mi spinsero a firmare per mantenere un posto nell’Esercito, molti altri avevano fatto la mia stessa scelta. Fortunatamente il mio compagno di brigata, Giovanni Franzetti, come me classe 1871, emulò la mia decisione e firmò per rimanere. Quando ci giunse la conferma dell’accettazione da parte del Ministero della Difesa, decidemmo di fare una festa in caserma per celebrare la notizia. Chiedendo i dovuti permessi ai nostri preposti, riuscimmo ad organizzare un gran pranzo con parecchio cibo e vino a profusione. Il rapporto di amicizia con Giovanni si era molto approfondito, divenendo fraterno e via via quasi maniacale. Passavamo i congedi e i nostri momenti di libertà sempre insieme, senza curarci nell’escludere da questa relazione altri commilitoni. Era diventato il nostro angolo di tranquillità, nel quale potevamo godere della nostra profonda amicizia e di questo rapporto che stava diventando sempre più esclusivo. Giovanni è un bell’uomo, alto, moro con baffi e barba alla Vittorio Emanuele ma con un fisico asciutto e muscoloso che nulla ha in comune con le rotondità che aveva posseduto il nostro vecchio Re d’Italia. Anche lui è piemontese come il vecchio Savoia, ma è nato nelle Langhe, dove i suoi lavorano come coloni di un proprietario terriero. Io sono lombardo, sul confine con la Confederazione Elvetica; dalla mia famiglia ho ricevuto i geni che mi hanno voluto biondo e con gli occhi chiari. Mi sentivo attratto da Giovanni e sapevo che anche lui provava un profondo affetto per me, mi chiamava Pinìn che in dialetto piemontese significa “Piccolino”. Ma il soprannome non era dovuto al fatto che fossi più basso o minore in età. Come ho già detto eravamo coetanei. Quando mi guardava, i suoi occhi sprizzavano gioia, e spesso mi passava per scherzo la mano tra i capelli per arruffarmi la frangetta.

Dopo la festa in camerata, Giovanni ed io eravamo piuttosto ubriachi e le nostre difese si erano abbassate notevolmente. Mentre eravamo a tavola, ebbri del vino e del buon pasto consumato, ci tenevamo stretti, con il mio braccio sulle sue spalle magre e la sua mano sulla mia coscia sotto il tavolo. A un certo punto ebbi la consapevolezza che la sua mano si stava spingendo sempre più in alto e sempre più tra le mie gambe. Non feci nulla per allontanarla e, anzi, lo spronai nel cammino carezzandogli lievemente il collo dietro la nuca. Mi avvicinai una volta al suo orecchio per mormorargli qualcosa facendolo ridere. Qualche minuto dopo, lui fece lo stesso ma non mi sussurrò nulla, depose solamente un bacio lieve sul mio collo. Rabbrividii a quel contatto sensuale e al solletico dei suoi baffi sulla mia pelle sensibile. Improvvisamente lucido, lo guardai negli occhi, scorgendovi un lampo di lussuria e di bramosia. Mi morsi il labbro inferiore e gli sorrisi con complicità.

Un paio d’ore più tardi eravamo nel dormitorio: i nostri compagni si erano addormentati da parecchio tempo e noi non ci eravamo ancora spogliati. Le nostre brande erano una di fianco all’altra, separate da un modesto e logoro stipetto di legno che conteneva le mie poche cose, e stavamo chiacchierando tra di noi sussurrando piano per non disturbare gli altri. Avevamo già appeso le giacche della nostra divisa nei rispettivi armadietti ed eravamo in maniche di camicia, seduti sulle nostre brande uno di fronte all’altro, carezzandoci le mani. Mi sbarazzai del resto della mia uniforme, indossai la mia camicia da letto di batista ed entrai nel mio lettino. Giovanni si sedette sul bordo della mia branda. Nell’eccitazione e nell’ebbrezza causata dal vino e dal chiasso che avevamo appena fatto, egli si prodigava come se scherzasse, con le più dolci carezze e con le parole più lusinghiere che mi avesse mai rivolto. Io ero semisdraiato sul piccolo cuscino che ci veniva concesso di tenere nel nostro letto. Lui era mezzo svestito, e appoggiandosi alle mie cosce si chinò su di me. Iniziai a parlargli rapito e mezzo intontito dal sonno e dal calore del letto che iniziava ad avvolgermi, lui si abbassò completamente su di me, mi circondò con le sue braccia, mi baciò sul viso, passando al tempo stesso le sue mani sotto la mia camicia, stringendo il mio corpo caldo con le sue grandi mani. Io mi sentivo morire, ma fui inondato improvvisamente da una gioia immensa e da un profondo affetto, che si stava rapidamente trasformando in qualcosa di più profondo. Eravamo incollati l'uno contro l'altro, fronte contro fronte, le guance in fiamme, la mia bocca sulla sua bocca come se stessi assaggiando il più dolce dei frutti del suo giardino. Non ero mai stato così felice!

Mi accorsi che la lampada a olio, appoggiata per terra, lanciava lampi minacciosi nell'immenso dormitorio, dove i nostri compagni stavano dormendo. Quella luce traditrice lasciava nella più profonda oscurità l'angolo nel quale noi eravamo così colmi di gioia, ma ebbi paura che qualcuno ci potesse vedere e, desiderando godere completamente dell'abbandono del mio dolce amico, gli suggerii, baciandolo: "Vai a spegnere la lampada, ma ritorna subito".

Traballando si alzò dal letto e andò a bere alla brocca che era posata a terra, accanto alla lampada. Mi guardò nuovamente mentre arricciava le labbra carnose, soffiando sul lume che si spense. Il dormitorio non fu più rischiarato se non dalla lampada dell’altra camerata accanto, che arrivava a rischiarare solo la nostra soglia. Tutto il resto era nelle tenebre più fitte.

Percepii nella penombra che ritornava al suo letto, sentii che si svestiva velocemente e che tornava verso di me trattenendo il respiro. Quel breve momento mi sembrò un secolo, poi finalmente il peso del suo corpo abbassò la rete del mio letto e quando lo sentii accanto a me fra le lenzuola calde, lo abbracciai alla vita. Le mie mani corsero febbrili alla ricerca del suo contatto, a stento trattenemmo grida di gioia e di godimento. Le nostre virilità erano dure come roccia e calorosamente pulsanti.

In un attimo fummo nudi formando un solo corpo, strettamente avvinghiati. Non avrei mai creduto di poter godere di così tanto ardore. Le nostre mani si stringevano e fuggivano nuovamente alla ricerca della pelle altrui, facendola bruciare di passione e desiderio. Le nostre lingue si allacciavano nelle bocche, e ci abbracciavamo così stretto da potere a stento respirare. Con le mani esploravo quel corpo così bello, tanto desiderato, quel viso dolce e virile che era così diverso dal mio. Col semplice tocco delle nostre carezze e del nostro desiderio, raggiungemmo il culmine nel medesimo istante, inondando i nostri corpi del rispettivo seme. Rimanemmo abbracciati per lungo tempo, mentre i nostri umori si seccavano e incollavano i nostri corpi l’uno all’altro. Ci scambiammo carezze e dolci parole. "Non ho mai goduto tanto con una donna, Pinìn" mi confessò, "I loro baci e le loro carezze non sono così ardenti né così amorosi come i tuoi".

Stando molto attenti nel non venire scoperti da nessuno, godemmo per altre volte nei nostri incontri clandestini. Ci spingemmo oltre e ci giurammo amore eterno, più e più volte. Eravamo profondamente innamorati l’uno dell’altro e siamo tuttora innamorati come quella prima notte.

Abbiamo pianificato che quando suo padre non sarà più in grado di coltivare le vigne del suo padrone, chiederemo congedo dall’esercito e andremo ad abitare insieme laggiù. Una volta siamo andati in visita dai suoi vecchi genitori e mi sono sentito accolto immediatamente, come il figlio della Parabola evangelica che era tornato a casa dopo tanto tempo. Una famiglia che mi ha adottato e che sento di amare come se fosse mia, dopo la morte di mia madre che era già da anni vedova del mio anziano padre. Amo quelle colline solcate dalle vigne di grignolino e nebbiolo. La lunga strada sterrata a rettifilo, ombreggiata da cipressi annosi, che porta alla magione del proprietario e la piccola casetta che abitano i suoi genitori, che si affaccia sull’aia della corte colonica, dove galline e oche scorrazzano libere, sotto la brezza delle langhe piemontesi. 

Una terra che sarà anche mia, come mio è quest’uomo dolcissimo che ho imparato ad amare mentre l’Italia imparava a diventare un'unica nazione.


(Ispirato ad una storia vera, scritta in una lettera indirizzata ad Emile Zola da un soldato italiano nel 1891.)

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